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Trascorriamo la nostra vita circondati da maschere. Alla disperata ricerca di volti. Italo Calvino vedeva nella maschera ciò che fa di un volto il prodotto della società e della Storia. Jean Starobinski, l’immenso critico da poco scomparso, ha indagato da par suo il rapporto tra il volto e la maschera. Da giovane, osservando i tratti del fascismo, individua i caratteri di quella “coscienza mascherata” che si rivolge al disagio delle masse, giocando con l’impotenza e l’anonimato, con il nulla in cui sono sprofondate, affascinandole e manipolandole. Per il filosofo Lévinas, lo spettacolo del mondo emerge in modo chiaro con la comparsa del volto, con l’appello che ogni volto evoca nella sua nudità. «Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro», scrive il filosofo.

Mi chiedo: dopo quanto tempo un politico si accorge che il suo volto è diventato una maschera? Andreotti o D’Alema se ne sono mai accorti? Credo di sì e ci hanno anche giocato, facendo della propria maschera un marchio. Altri politici non hanno mai rinunziato al volto. Berlinguer, per esempio. Timido, stupito, indignato, lo ricordiamo persino smarrito e commosso, comunque sempre col suo volto. Al mite Moro è invece toccata la sorte tragica di essere, insieme, maschera e volto. È il motivo per cui ha affascinato Pasolini e Sciascia, scrittori che hanno interrogato la sua maschera per far riemergere la verità del suo volto. Serve anche a questo la letteratura, a far conoscere dei volti.

Ora, qui, nella nostra politica, c’è una nuova generazione di maschere, di cui sono prototipi Di Maio e Salvini. Maschere così spudorate da fingere di essere volti. Maschere in cui annega ogni possibilità di distinguere destra e sinistra. Tra le finzioni o apparenze che ci circondano, questa è la più ingiusta. Talleyrand, grande cerimoniere della politica come maschera, scrisse che ciò che lo appassionava di più era «l’incertezza sull’identità delle persone”. Anche noi siamo incerti sull’identità di Di Maio e Salvini. E, paradossalmente, questa presunta mancanza di identità è la loro forza. In questo senso, questi due giovani leader sono attori cui è toccato il destino di interpretare sul palcoscenico della politica il ruolo di sfocare e mortificare ulteriormente una distinzione già appannata, destra/sinistra, il ruolo giusto al momento giusto. “Masks or Faces?”, era la domanda che si poneva Lee Strasberg, l’attore cui si deve il metodo di recitazione più seguito dai grandi divi americani.

Quel che mi piace di Nicola Zingaretti è che non è una maschera. L’appello che voglio fargli è di circondarsi di volti. Di liberare il Partito democratico dalla sua maschera più insidiosa: quella che lo ha reso più realista del re. La maschera di chi non crede alle ragioni della sinistra, all’equilibrio sociale, alla solidarietà, alla dignità. La maschera del calcolo e della prudenza.