L'avvocata Filomena Gallo dell'Associazione Luca Coscioni: «Quella legge è nata 15 anni fa per precludere e negare. E' stata riconosciuta ingiusta dalle più alte Corti ma è ancora viva nonostante i suoi nodi più duri siano stati sciolti. Ora bisogna cambiarne lo spirito»

Martina ha 2 anni, compiuti il 10 marzo. Se la legge 40 forse rimasta in vigore, Martina non sarebbe mai nata.
Correva l’anno 2004 e la legge 40 entrava in vigore il 10 marzo. Il pretesto era quello di disciplinare, l’obiettivo era quello di vietare: proibire la fecondazione di  più di tre gameti e imporne l’impianto contemporaneo qualora si fossero fecondati tutti, impedire l’applicazione di tecniche eterologhe, negare l’accesso alla procreazione medicalmente assistita a chi, pur fertile, avesse voluto utilizzarla per scongiurare la trasmissione di una malattia genetica, precluderla alle persone single o dello stesso sesso e impedire che gli embrioni fecondati e inutilizzati potessero essere destinati alla ricerca di nuove terapie.

Uno steccato, un muro di cinta, una corsa a ostacoli lunga 15 anni per noi che quei paletti volevamo
abbatterli e permettere così di nascere a Martina, Nicolò, Francesco, Vittoria… che oggi per quella legge non sarebbero mai nati. Bimbi che invece, vivono, giocano e costruiscono speranze e futuro insieme ai loro genitori. Vittoria non sarebbe mai nata e invece  adesso a quasi due anni balla insieme ai grandi per festeggiare il compleanno del nonno, affetto dalla distrofia di Beker.

Ma ciò che hanno in comune le famiglie di questi bambini non è soltanto il desiderio di avere un bambino,
è soprattutto il cammino faticoso che le ha accomunate alla ricerca di un figlio che avesse qualche possibilità di sopravvivere o di avere una vita che non fosse una migrazione da un ospedale all’altro in cerca di una cura che la medicina non era,  e ancora  oggi spesso non è, in grado di offrirgli.

E questa strada, in questi lunghi 15 anni, noi l’abbiamo fatta con loro, al fianco dei loro genitori. A cominciare da quando la nostra Associazione insieme a Radicali Italiani e altre forze politiche riuscì a raccogliere le firme per abrogare questa legge e indire il referendum. Il referendum fu indetto, ma la richiesta di abrogazione della legge nelle urne  fu trasformata in un quiz su quattro quesiti. Domande complesse, formulate in modo tecnico, inadatte a un referendum popolare: i fautori della legge 40 avevano raggiunto il loro obiettivo, il quorum infatti non fu raggiunto, la legge restò intatta e con essa  tutti i divieti che comportava.

A questo punto la strategia cambiò. Se Francesco, Vittoria, Martina, Nicolò dovevano nascere, i loro
genitori, e quelli di molti altri bambini nati nonostante la legge 40, dovevano lottare in tribunale. E così, al loro fianco, cominciammo a chiedere tutele tramite i tribunali contro la legge 40. Nel 2009 arrivò la prima pronuncia di incostituzionalità: la  Corte costituzionale cancellava il divieto di fecondazione di più di tre gameti e l’obbligo di unico e contemporaneo trasferimento in utero. Una sentenza che restituiva al medico, e quindi alla scienza, il diritto di decidere, insieme alla coppia, come procedere,  caso per caso, evitando gravidanze plurime e tutelando la salute della madre e del nascituro.

Lo scoglio più duro restavano le coppie fertili portatrici di patologie genetiche o cromosomiche alle
quali non veniva riconosciuto il diritto di conoscere lo stato di salute dell’embrione e quindi l’accesso alle tecniche di procreazione assistita.

Questa battaglia ha per me ancora gli occhi di Neris e Alberto, portatori entrambi dell’atrofia muscolare
spinale di tipo 1 (Sma1), genitori di Beatrice, morta a 6 mesi, e poi aborti in seguito a indagini prenatali che diagnosticavano quella grave malattia. Una decisione firmata dal giudice Scarpa del tribunale di Salerno decretò finalmente che l'esame preimpianto,  possibile attraverso le tecniche di fecondazione assistita, sarebbe stato equiparabile alle indagini prenatali e il divieto sarebbe stato incostituzionale. Troppo tardi, purtroppo, almeno per loro. Lo stato di salute di Neris e Alberto non gli permise a quel  punto di accedere alle tecniche di procreazione assistita, ma la loro “vittoria” aveva un senso perché Antonella e Luigi ottennero subito dopo la stessa ordinanza e poterono provare ad avere un figlio senza SMA.

Prime vittorie che precedettero quella storica, che avvenne a Cagliari, di Claudia e Maurizio, affetto da talassemia, grazie ai quali siamo riusciti a far imporre nel 2013 dal tribunale all’ospedale della città, completo di attrezzature ma inutilizzate, di fornire l’indagine in modo diretto o indiretto (tramite convenzione con struttura esterna all’ospedale). 

Una decisione che ancora oggi viene richiamata dai tribunali ogni volta che una struttura pubblica si rifiuta di eseguire indagine prenatale e che ha sostenuto e sostiene tante altre donne sarde ogni volta che una struttura prova a rifiutare un esame.

Il tappo della bottiglia era saltato e i paletti dello steccato costruito dalla legge cominciavano a cedere. Ma la legge rimaneva intatta e per superarla bisognava fare ricorso o andare all’estero. Sulla diagnosi preimpianto rimane storica la battaglia dei coniugi Costa-Pavan, che decisero di girare la questione direttamente alla Corte Europea dei diritti dell'uomo  ricevendo il sostegno  dell’associazione Luca Coscioni, delle associazioni di pazienti e di 60 parlamentari. A difesa della legge 40 si schierarono invece  le associazioni pro vita e 52 parlamentari che però perdono la battaglia. La Corte infatti condanna  l’Italia in quanto riconosce che la legge 40 viola i principi fondamentali di tutela dei diritti dell’uomo. Ma il Parlamento non modificava comunque la norma. Così Rosetta Costa e suo marito, la coppia che aveva fatto ricorso, per poter eseguire la sentenza
 che li autorizzava - in quanto cittadini comunitari -  ad accedere alla pma, per eseguire indagini sulla blastocisti rientrati in Italia dovettero rivolgersi comunque a un Tribunale.

Provammo perciò a sollevare la questione alla Corte costituzionale. Valentina e Fabrizio, una giovane
coppia con sette aborti alle spalle per malformazioni incompatibili con la vita, avrebbero voluto usufruire di indagini diagnostiche prima che la blastocisti fosse trasferita in utero. Maria Cristina e Armando, portatori di una patologia grave, con la nostra  assistenza si rivolsero ad un tribunale e riuscimmo a portare la questione alla Corte Costituzionale e nel 2015 il tribunale dichiarò finalmente l’incostituzionalità della norma. Fu il Tribunale di Firenze, poi, grazie a un caso di sterilità che seguimmo,  a sollevare il dubbio di legittimità costituzionale del divieto, seguiti altri tribunali a Milano e Catania. Così anche questo paletto cadde.

Nel 2014 la Corte costituzionale cancellò il divieto di applicazione di tecniche eterologhe.

Nel 2015 la Corte Costituzionale emette anche una sentenza che precisa che eseguire indagini sull'embrione
 su richiesta della coppia e trasferire in utero solo gli embrioni che determineranno una gravidanza sicura non è eugenetica e i medici non commettono reato.

Due anni fa, la stessa Corte ha chiesto di disciplinare la destinazione degli embrioni crioconservati
 abbandonati che, attualmente, non possono essere destinati alla ricerca. Lo steccato è stato smontato pezzo a pezzo. E’ costato la sofferenza di tante coppie, le più fragili. Ma quella legge, riconosciuta ingiusta dalle più alte Corti, è ancora viva nonostante i suoi nodi più duri sono stati sciolti.

Resta ancora tanta strada da fare per l’equità dell’accesso che è un problema che riguarda purtroppo
molte patologie e che riflette la diseguaglianza presente nel federalismo sanitario. E ancora c’è da fare perché quelle indagini precliniche sull’embrione, riconosciute un diritto dell’uomo, vengano inserite nei Livelli Essenziali di Assistenza.

Resta in realtà la cosa più importante: cambiare lo spirito di una Legge che nasce non per consentire,
non per tutelare, ma per impedire, precludere, negare.