I nuovi quartieri della Capitale sono nati e ?cresciuti attorno ai giganti del cemento. Che ridisegnano la geografia della metropoli. E i suoi cittadini

Ci sono centri commerciali giganti. Per le dimensioni, per i volumi di denaro che muovono, per la rappresentazione che proiettano, per l’impatto sul territorio. A Roma sono nati tutti negli ultimi quindici anni. E sono stati inaugurati prima del 2008, quando è iniziato il crollo dei prezzi immobiliari.

Alcuni di questi giganti hanno talmente stravolto le aree in cui sono inseriti da meritare una riflessione su quanto una delle massime espressioni dello spazio contemporaneo incida sull’abitare. Perché questa è l’evoluzione dei primi centri commerciali, che avevano un’estensione ridotta e si limitavano a riunire un insieme di negozi in un unico ambiente, chiuso e totalizzante, lontano dalla strada. Arrivarono a Roma tra la fine degli anni Ottanta (CinecittaDue nel 1988) e l’inizio dei Novanta ed erano l’evoluzione dei grandi magazzini.

Per andare al centro commerciale Roma Est bisogna pagare un pedaggio al casello autostradale. Quello chiamato Porta di Roma è a pochi metri dalla frontiera del Grande raccordo anulare. Parco Leonardo sconfina addirittura nella giurisdizione del comune di Fiumicino. Il centro è dunque lontano. Una distanza significativa sul piano sociale e politico, perché trasforma la promessa di un residenziale immerso nel verde e ben collegato in una realtà di quartiere-dormitorio. E i corridoi dei centri commerciali diventano i corsi del centro storico dove guardare le vetrine e fare lo struscio. Perché, in assenza di luoghi aggregativi e piazze d’incontro, i giganti diventano un riferimento di socialità.

La città in campagna: Roma Est.
Se tutti i quartieri intorno ai giganti sono risucchiati nell’identificazione col centro commerciale, Roma Est ha un nome che si presta a diventare un riferimento. Inaugurato nel 2007 come il più grande d’Europa, sfruttando una variante al piano regolatore che prevedeva un grande servizio pubblico, oggi è il cuore di un’area in fermento edilizio. Il quartiere simbolo venuto su insieme al centro commerciale si chiama Ponte di Nona. Non la borgata di case popolari, sull’altro versante, che esisteva già e dal 2008 è diventata Ponte di Nona vecchio. No, Ponte di Nona nuovo è un’area densa, che catapulta dinamiche da quartiere urbano in un contesto che ha ancora campi e greggi di pecore. Un’area edificata dal niente e che continua a soffrire le criticità classiche: dalla scarsezza di collegamenti all’assenza di centri aggregativi.

A meno che non si preferiscano le vecchie e tortuose consolari, Prenestina e Collatina, per spostarsi da qui bisogna percorrere un pezzo di autostrada. E quindi pagare un pedaggio, anche se all’interno del comune di Roma.

Arrivando dalla Collatina, il quartiere appare come un miraggio, dopo chilometri senza incontrare una costruzione. Ogni minuto che passa ci si convince di aver sbagliato strada. Invece di colpo appaiono contemporaneamente i monti Tiburtini e, appunto, il quartiere. Il primo asse importante che lo attraversa si chiama viale Francesco Caltagirone. Tutte le strade qui sono intitolate a costruttori. Sul viale si affaccia una serie ininterrotta di esercizi commerciali, mentre nei dintorni ci sono solo comprensori residenziali e nessun bar. Il viale costeggia il parco di Ponte di Nona, che si incrocia con il parco Leonardo Sinisgalli a formare una “V”. E si ripete lo stesso modulo: fascia commerciale nel viale al centro e densità residenziale intorno. Palazzi a schiera, dai quattro ai sei piani, con tinte che dal bianco sporco arrivano al marrone

La parrocchia Madre Teresa di Calcutta nasce nel 2016 su un terreno regalato da Manlio Cerroni, il cosiddetto “Re della monnezza”. Bianchissima, fronteggiata da tre parallelepipedi verticali, la chiesa ha la forma di una rampa da dove lanciarsi fino al centro commerciale, che è visibile oltre una striscia di verde. A una manciata di chilometri è in funzione l’impianto di smaltimento rifiuti di Rocca Cencia, di proprietà dello stesso Cerroni, dopo la dismissione di Malagrotta.

Più che gli effetti della discarica sul territorio, i residenti di Ponte di Nona temono però il vicino campo rom di Salone, da cui si difendono con manifestazioni e squadre di controllo notturno. Le vecchie, rare strade che esistevano da queste parti, oggi hanno dimensioni che fanno tenerezza per il loro anacronismo, tra i grandi cantieri al lavoro. Tra queste c’è via Ponte di Nona, che collega la Collatina alla Prenestina, ed è lo sfondo della famosa scena di Totò, Peppino e la malafemmina (1956), coi fratelli Caponi che la percorrono su una carretta per tirare sassi alla casa del vicino.

“In the Middle of Nowhere”: Parco Leonardo.
Appartiene al territorio di Fiumicino, ma nella percezione questa è Roma e Parco Leonardo è il maggiore centro commerciale del quadrante Ovest della città. L’abitato che lo circonda è difficile da distinguere, a una prima occhiata. Il residenziale sembra una quinta del commerciale, gli abitanti sembrano clienti. Forse perché a parte la nuova Fiera di Roma (inaugurata parallelamente, nel 2006) qui intorno non c’è niente di urbano, tra la consolare Portuense e l’autostrada che collega Roma all’aeroporto di Fiumicino.


Nel 2003 viene consegnato il primo appartamento. Quindici anni dopo un senso di disuso, di già obsoleto, convive con un senso di perenne costruzione, alimentato da cantieri sempre nuovi, gru sempre in attività, ossessivi cartelli ufficio vendesi. Il progetto viene da lontano. Dal 1989, quando il gruppo Leonardo Caltagirone (il minore dei tre fratelli) acquista il terreno, all’epoca a destinazione industriale e presto convertita in polifunzionale. Viene annunciata come «la più grande iniziativa immobiliare privata in Italia».

Nel novembre 2005 si inaugura il centro commerciale. Diventano anche operativi lo svincolo autostradale e la stazione ferroviaria. Negli anni arriva il cinema da ventiquattro sale, il più grande d’Italia. E la chiesa, le banche, le scuole .

Il più importante complesso residenziale della zona si chiama Le Pleiadi. Sette piani in cortina, videocitofono e metrature anche ampie. Sui tombini qui c’è il simbolo e il nome di Parco Leonardo. A separare il complesso dal centro commerciale, una caserma circondata dal filo spinato. I palazzi più vicini a Parco Leonardo sono di tipologia simile, ma la presenza del centro commerciale qui è più influente. Disorienta camminare per i viali intitolati ai grandi maestri dell’arte. Per l’odore permanente di fast food e la musica in filodiffusione che viene dai parcheggi multipiano, ma soprattutto per l’impressione che la quotidianità qui si debba ricavare. In una strada cieca, un uomo insegna al figlio ad andare sui rollerblade. Un gruppo di bambini si rincorre tra i negozi vuoti, non si capisce se abbandonati o di prossima apertura. Alcune signore chiacchierano sedute sul bordo dei vasi di piccole palme. Se “Leonardo” sottolinea la presenza del creatore, di “Parco” se ne ve de poco, soprattutto rispetto al verde che brillava nei plastici dell’ufficio vendite. Sembrano traditi i progetti da new town: se questa doveva essere una moderna città-giardino, manca il giardino. La forma di vegetazione più significativa sono le erbacce lunghe e resistenti, a volte addirittura canneti, che emergono dall’asfalto a ricordare che fino a qualche tempo fa, prima della bonifica, qui era palude.


Gli spettri delle promesse: Porta di Roma.
Porta di Roma nasce nel 2007, schiacciata tra il Grande Raccordo Anulare e alcuni storici quartieri popolari del quadrante nord (Tufello, Montesacro). Tutte le strade dei dintorni convergono qui: impossibile non individuarlo, anche grazie alla sfilza di bandiere italiane con i blasoni delle Repubbliche Marinare. L’iniziativa è di un consorzio di grandi costruttori, i maggiori nomi dell’edilizia a Roma. Nel 2010 il centro commerciale è stato ceduto ad Allianz e Corio, per una cifra (440 milioni) che ne ha fatto la più consistente transazione dell’anno in Italia. Doveva essere la gloriosa porta di Roma, appunto, per chi viene da Nord. Doveva essere una delle nuove centralità con cui l’amministrazione immaginava di intervenire sulle periferie. Doveva, prima che continui cambi di destinazione e diversi progetti saltati (centri direzionali, collegamento alla linea metropolitana) trasformassero il territorio in una mera zona residenziale con pochi servizi e molti buchi.

Due quartieri sono nati parallelamente al centro commerciale, appollaiati sulle collinette che emergono dal paesaggio. Lo spazio è talmente grande e vuoto che sembra fuori scala: come se ci si aspettasse traffico, movimento, vita, e invece tutto tacesse. Le strade intitolate a grandi attori sono deserte, le continue rotatorie con le inutili precedenze hanno qualcosa di surreale. Una pista ciclabile lustra avvolge ossessivamente gli insediamenti, salendo e scendendo per questo territorio tutt’altro che pianeggiante. La vera difficoltà è capire quali edifici sono in costruzione e quali invece completati e invenduti. Alcuni hanno tutte le serrande abbassate. Altri hanno reti di recinzione davanti a parcheggi intonsi. Camminare qui è un’esperienza simile a entrare in una stanza buia senza sapere se c’è qualcuno. Uno dei quartieri lo chiamano “Porta di Roma”, con una sovrapposizione che incolla l’identità di un luogo dove comprare su un luogo dove vivere. In realtà è un insediamento di pochi isolati, con una sola strada dove si susseguono piccoli esercizi commerciali. Per il resto è un’edilizia solo residenziale che ricorda case di villeggiatura del litorale. In un prato di erbacce, un cartello dice: “Sondaggi per studi geologici per la nuova stazione metropolitana”, e non si capisce se sia una promessa vecchia come i manifesti elettorali sbiaditi poco lontano.

L’altro quartiere, Parco delle Sabine, è ben più esteso e differenziato. Un insieme di piccoli comprensori diversi per tipologia, materiali e dimensioni: alcuni elementari e dai colori spenti, altri più sofisticati. C’è una scuola intitolata al pilota Marco Simoncelli. C’è un nuovo cantiere dove sono ammassati mucchi di pietre e lavorano due scavatrici. Appena chiedi indicazioni, ti senti rispondere: “Chi cerchi?”, come nei paesi.
Il paradosso è che esiste un quartiere con il nome del Parco delle Sabine, ma il parco ancora non esiste davvero. O meglio: esiste uno spazio verde, privo di manutenzione, dove crescono piante senza controllo e qualcuno fa jogging su sentieri non illuminati. Un cartello davanti all’area picnic avvisa che il parco non è ancora consegnato ma se ne dà comunque accesso alla cittadinanza, quasi fosse un atto di generosità.