L’esercizio della memoria e la fatica del linguaggio per ritrovare l’umanità

Seicentoventinove. Cinquecentoventidue. Dodici a perdere, mancavano le celle frigorifere per i cadaveri. Corpi, ma non proprio corpi. Numeri, almeno finché sono là, separati da miglia di mare e da secoli di storia cancellata (la nostra storia), i secoli trascorsi dall'Habeas corpus, uno dei “gesti” con cui l'Occidente ha sancito il diritto a essere persona. Le retoriche vincenti spesso nascono, prosperano, e infine esplodono in un consenso senza memoria e grazie a una povertà di linguaggio. Quelli sono corpi, ma senza una proprietà, una storia, un volto. Sono numeri. Non sappiamo dirne altro. Le retoriche vincono prima della politica, del confronto politico (sulle politiche migratorie in questo caso). Anzi, lo impediscono. Per mancanza di linguaggio, che è codice condiviso o non è, nel consenso e nel dissenso. Che è “lavoro”.

Ha detto Michele Serra in un'intervista al “Foglio”: «La sinistra nasce dentro un linguaggio, quello della complessità, che in questo momento storico è totalmente soccombente. Nessuno ha il tempo di sopportarla, la complessità...». Resta solo il tempo per un like, per un tweet, per un post o un commento in Rete. E in molti casi non sono scrittura, ma oralità scritta che sale dalle viscere come un insulto, una bestemmia. Con la differenza che si fanno “testo”. Non c'è tempo, non c'è memoria, non c'è linguaggio.

Sarà da queste assenze che scaturiscono l'odio, la paura, l'inumanità? Che il male torna a farsi “banale” come nel buio della storia? Forse nella guerra civile virtuale sul tema dei migranti non c'è “cattivismo” contro “buonismo”, destra contro sinistra, popolo contro élite, “gente” contro “radical chic”.

C'è soprattutto stanchezza contro ostinazione. Stanchezza come resa a un troppo di fatica, di mondo, di linguaggio; stanchezza che trova un ricostituente nel capro espiatorio, secondo procedimenti arcaici. E dall'altro lato c'è ostinazione come residuo di energia da spendere per provare a orientarsi nella complessità, sottoponendosi alla fatica del linguaggio, del discorso.

Il linguaggio della complessità è soccombente, dice Serra. Ma non c'è linguaggio se non della complessità, appena ci si affaccia in quella che chiamavamo “sfera pubblica” e che oggi non sappiamo più cos'è, boccheggiando nelle bolle della Rete. Il linguaggio è “lavoro”. Forse basterebbe rimettersi a lavorare un po'. E' il solo modo per giocare la partita vera delle opinioni ed evitare quella “truccata” delle retoriche e degli slogan.