A fine mese i turbanti neri celebrano il “congresso” ?per scegliere l'erede del mullah Omar, morto nel 2013. Una sfida a due, con le potenze regionali e gli 007 pakistani che osservano sullo sfondo

«Il gran “congresso” dei talebani si avvicina. In gioco c’è una scelta fondamentale, l’elezione del nuovo leader», l’Amir al-mumineen, la guida dei fedeli. Ne è convinto Antonio Giustozzi, il più autorevole studioso dei movimenti anti-governativi afghani, che anticipa in esclusiva all’Espresso una notizia che per ora circola soltanto tra i leader della lotta armata, tra Afghanistan e Pakistan. Proprio in Pakistan, probabilmente a Quetta, capoluogo della turbolenta provincia del Belucistan, si terrà la grande shura, il gran consiglio del principale movimento armato afghano. Il gruppo al potere dal 1996 al 2001, quando l’Emirato islamico d’Afghanistan è stato rovesciato dall’intervento militare degli Stati Uniti.

Sotto la comune etichetta di talebani si raccolgono centri di potere diversi chiamati shure (consigli), uniti dalla causa comune - la guerra alle truppe di occupazione straniere e il ritorno al governo - e da una lunga carriera di militanza, interessi materiali e orientamento ideologico. Ma non mancano i dissidi. Contano i diversi indirizzi strategici, i patrocini degli attori regionali e le rivalità personali. Come quella tra i due contendenti alla carica più alta: Haibatullah Akhunzada, l’attuale leader nominato nel maggio 2016 dopo la morte di mullah Mansour, polverizzato da un drone americano nel Belucistan pachistano, e Sirajuddin Haqqani, a capo dell’omonima rete di militanti, radicali e vicini al jihadismo transnazionale. Sulla carta Sirajuddin è subalterno ad Haibatullah, leader assoluto, di cui è vice. Ma il primo, ambizioso, scalpita, rivendica il timone. Il secondo, indebolito, vanta titoli religiosi ma non è riuscito a consolidare la propria leadership. Molti ne contestano legittimità e capacità.

Il “congresso” è un atto dovuto per respingere una volta per tutte accuse e sabotaggi. Il loro rapporto è ai minimi termini, spiega Giustozzi, ma c’è un accordo: «contendersi il voto e vedere chi avrà la meglio». Nessuno dei due gode del rispetto unanime riservato a suo tempo a mullah Omar, lo storico leader investito nel 1996 a Kandahar della carica di Amir al-mumineen. Quando i talebani ne hanno annunciato la morte, nel luglio 2015, Omar era morto da tempo, come rivelato in esclusiva dall’Espresso nel novembre 2014. Chi sapeva del decesso, come mullah Mansour, nominato al suo posto, aveva taciuto per convenienza. Da allora le fratture interne sono aumentate. La fiducia, già fragile, è diminuita. Le varie shure si sono divise al loro interno e tra di loro. Nuovi attori esterni sono intervenuti. I vecchi hanno assunto posture diverse. In questi giorni, vecchi e nuovi attori scommettono sul proprio candidato. Sirajuddin Haqqani e Haibatullah Akhunzada hanno sponde diverse. Opposte. «Sirajuddin può vantare l’appoggio finanziario dei sauditi e di alcuni donatori privati del Golfo. Haibatullah quelli dell’Iran e della Russia. Il Pakistan sembra aver assunto un’inedita posizione neutrale», nota un analista afghano che chiede l’anonimato.

La storia dei talebani è anche la storia dei finanziatori stranieri. Il rapporto tra sponsor e barbuti è dialettico. Gli accordi, precari e flessibili. I talebani non sono marionette nelle mani di burattinai esterni, ma attori consapevoli di una partita complessa. I servizi segreti militari del Pakistan, tradizionale sponsor dei “turbanti neri”, continuano a patrocinare alcune shure, ma la vecchia guardia è sempre più insofferente al loro abbraccio. Più recente invece è l’interesse di Teheran e Mosca. L’Iran e la Russia hanno investito sui talebani come argine contro l’espansione nelle loro aree di influenza della Provincia del Khorasan, la branca locale dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi. Annunciata nel gennaio 2015, è il nuovo attore della guerriglia.

Thomas Ruttig, fondatore dell’Afghanistan Analysts Network, il più accreditato centro di ricerca del Paese, ne riconosce le capacità stragiste, ma ne circoscrive le potenzialità. «Allo stato attuale non sono in grado di cambiare l’equilibrio strategico del conflitto», dichiara all’Espresso nella sede di Kabul. Per Antonio Giustozzi il rischio c’è. Soprattutto se a Quetta i barbuti dovessero eleggere Sirajuddin Haqqani, erede di un vasto impero di criminali, contrabbandieri e guerriglieri inaugurato decenni fa dal padre Jalaluddin, tra i primi ad accogliere i combattenti arabi nel jihad anti-sovietico e sodale di Osama bin Laden. Per Giustozzi il pericolo non è soltanto potenziale, ma attuale e concreto. Lo dimostrano i recenti attentati in Afghanistan, in particolare tra gennaio e febbraio: centinaia i morti, soprattutto nella capitale. Qui a Kabul ci si interroga sulla verosimiglianza delle rivendicazioni dello Stato islamico. L’ultima per l’attacco del 13 maggio a Jalalabad contro un edificio governativo: 15 morti e decine di feriti. Molti ritengono che dietro la sigla locale del Califfo ci siano i pachistani. Che gli affiliati alla Provincia del Khorasan siano opportunisti pronti a cambiar casacca. Le cose sono più complicate, spiega Giustozzi, di cui sta per uscire The Islamic State of Khorasan (Hurst editore), frutto di decine di interviste con militanti in Afghanistan e Pakistan.

L’autore racconta che ogni shura talebana ha adottato tattiche diverse di fronte all’opa del Califfo in Afghanistan. Scontro diretto, non-interferenza, dialogo. Alleanze temporanee sono state siglate e poi archiviate. La più importante è quella tra il Khorasan e la rete Haqqani. Non a caso: «gli Haqqani rappresentano la componente più ideologica dei talebani», i duri e puri ostili al negoziato, per i quali «si combatte per combattere, senza finalità politiche: il jihad per il jihad». Tra l’autunno e l’inverno del 2016, rivela Giustozzi all’Espresso, una componente rilevante degli Haqqani ha aderito alla Provincia del Khorasan. Oltre a 150 combattenti «c’era anche Hazizullah, capo della Commissione Fedayin, la cellula responsabile degli attacchi complessi». Un patrimonio di competenze, know-how, bombaroli e professionisti del terrore finito nelle mani degli stragisti del Califfo. Sirajuddin non ha preso bene il tradimento. Ma i rapporti poi sono migliorati. Tanto che nel dicembre 2017 è stato trovato «un accordo per una strategia comune su Kabul». L’obiettivo: seminare il terrore, far implodere il governo.

I sanguinosi attacchi di gennaio sono il frutto di quell’accordo. Durato poco. Fino a febbraio. «Gli Haqqani sono stati richiamati all’ordine dai pachistani e dalla shura di Quetta», i veterani del conflitto contro Kabul. Sia Islamabad che la vecchia guardia talebana vogliono indebolire il governo, non distruggerlo. «I rapporti tra la Provincia del Khorasan e gli Haqqani, però, rimangono buoni», aggiunge Giustozzi. Quelli tra Haibatullah Akhunzada e Sirajuddin Haqqani sono pessimi. I due hanno indirizzi strategici diversi. Sponsor inconciliabili. «Haibatullah non è contrario in linea di principio al negoziato con il governo». Ma prima di accettare l’offerta di pace del presidente Ashraf Ghani deve rafforzarsi. «Vuole conquistare alcune province, accreditarsi internamente e presentare ai suoi il negoziato come una concessione, non come una resa».

Gli sponsor iraniani e russi, per ora, ostacolano i colloqui di pace. Attraverso l’Afghanistan condizionano Washington sul quadrante siriano, dove entrambi sostengono il regime di Assad. Se americani, sauditi e israeliani provocano l’Iran in Siria e minacciano l’alleato di Teheran a Damasco, Trump ne pagherà le conseguenze sul terreno afghano. La sua scelta di violare l’accordo sul nucleare complica le cose, «soprattutto se gli Usa dovessero usare l’Afghanistan per attività contro l’Iran», aggiunge Thomas Ruttig. Ai sauditi, invece, non interessa la pace. «Pensano soltanto a ridimensionare il ruolo di Teheran nella regione», nota l’analista afghano. Per questo hanno fornito al loro candidato, Sirajuddin Haqqani, montagne di denaro. «Per comprare la fedeltà dei comandanti: soldi in cambio del voto».

L’elettorato incerto viene corteggiato. Il momento della scelta, è vicino. «Il congresso era stato fissato per il 28 maggio, ma è stato rimandato perché si litiga ancora sui criteri elettorali», spiega Giustozzi. Sirajuddin non vuole che votino i rappresentanti delle nuove shure come quella di Mashad (dall’omonima città iraniana), vicina ai pasdaran. Haibatullah spinge per un voto trasversale. «C’è già chi annuncia brogli, come nelle elezioni afghane istituzionali!», nota Giustozzi. Gli elettori da convincere sono almeno tremila. Ci sono i membri della Rabbari shura, il consiglio della leadership composto da 35 persone, gli esponenti delle altre shure accreditate, i responsabili delle varie Commissioni (militare, politica, finanziaria, etc), i governatori ombra e i comandanti delle 34 province e dei circa 400 distretti. Il compito è cruciale. Si tratta di confermare la leadership di Haibatullah, rappresentante delle fazioni più pragmatiche, oppure sostituirlo con Sirajuddin Haqqani. Stragi e attentati si moltiplicherebbero, se vincesse Sirajuddin. Guidati da un oltranzista, i talebani potrebbero rinnovare l’alleanza interrotta con lo Stato islamico, estendendola a tutto il Paese. Un incubo per i civili afghani.