Il colosso industriale italo-argentino. E una rete segreta di offshore. Ora sotto inchiesta per corruzione. Dal Brasile le indagini si allargano a Milano, Buenos Aires e Lugano. E le accuse coinvolgono i re dell’acciaio

Un colosso mondiale dell’industria, controllato da una dinastia familiare che ha marcato la storia economica di nazioni come Italia e Argentina. Un gruppo che controlla 450 società con 75 mila dipendenti in 45 Paesi del mondo. Fabbriche vere, non finanza: grandi imprese che da decenni producono acciaio e costruiscono gasdotti, oleodotti e centrali di energia in tutti i continenti. Dietro questo impero industriale, però, si muove una galassia di società anonime, collocate nei più riservati paradisi fiscali. Una rete parallela di tesorerie offshore, ora portata alla luce da un’inchiesta giornalistica internazionale fondata sull’enorme massa di atti societari, da Panama alle Bahamas fino ai Paradise Papers, che il quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung ha condiviso con l’International consortium of investigative journalists (Icij), di cui fa parte L’Espresso. Tra decine di società anonime, l’inchiesta documenta anche il ruolo di un gruppo di offshore che, secondo una serie di indagini giudiziarie aperte in Italia, Brasile, Argentina e Svizzera, sarebbero servite a gestire fondi neri e pagare tangenti in mezzo mondo. Accuse smentite con fermezza da tutto il gruppo.

La dinastia italo-argentina
Il colosso Techint è stato fondato da un manager italiano, Agostino Rocca, emigrato in Argentina nel 1946. Negli anni del fascismo aveva guidato grandi società statali come Dalmine, Ansaldo e Finsider. Dopo la seconda guerra mondiale si è trasferito a Buenos Aires e ha aperto una compagnia privata, Tecnica Internacional, da cui deriva il nome del gruppo. Dagli anni ’50 la Techint ha continuato ad espandersi in settori collegati, dai tubi d’acciaio alle raffinerie ai grandi poli chimici. Il colosso oggi comprende anche Tenaris (fabbriche siderurgiche), Ternium (laminati), Tenova (macchinari) e Humanitas (ospedali).

Lo stesso Agostino Rocca ha aperto in Uruguay, nel 1949, una società finanziaria, chiamata San Faustin, che all’inizio raccoglieva capitali europei da investire in Sudamerica. Negli anni la San Faustin è diventata la holding, la società-capofila di tutto l’impero. Il fondatore ne è rimasto titolare fino alla morte, nel 1978, quando il controllo è passato al figlio Roberto. Oggi il gruppo è governato dai nipoti: Paolo Rocca, il più grande industriale argentino, amico personale del presidente (e imprenditore) Mauricio Macri; il fratello Gianfelice, che vive a Milano e ha rivestito cariche di vertice in Confindustria e in molte società e istituzioni come l’università Bocconi; Roberto Bonatti, figlio della loro zia Anna; e il pronipote Lodovico Palu Rocca.
L’importanza della dinastia è stata riconfermata da un’inchiesta de L’Espresso che nel marzo 2017 ha svelato i trust che coprono gli azionisti della San Faustin, dove accanto ai vari rami della famiglia Rocca compaiono gli eredi di personalità come Luigi Einaudi, presidente della Repubblica negli anni della ricostruzione dell’Italia.
Fedele alla vocazione industriale, il gruppo Techint non è mai stato coinvolto in scandali finanziari o bancari. A Milano le indagini di Mani Pulite, tra il 1992 e il 1994, hanno investito alcuni manager italiani, ma la famiglia Rocca è rimasta fuori da Tangentopoli. L’incantesimo si è rotto solo in questi anni, in Brasile, con la maxi-inchiesta Lava Jato.

Tutto inizia quando il giudice della Tangentopoli brasiliana, Sergio Moro, accusa la Confab, una società carioca del gruppo Techint, di aver pagato tangenti per 9,4 milioni di dollari, tra il 2009 e il 2012, per ottenere ricchissimi appalti dalla Petrobras: il colosso petrolifero statale travolto dalle accuse di corruzione. Una parte dei soldi, secondo atti giudiziari esaminati dai giornalisti di Perfil e La Nacion, sarebbe stata intascata da Josè Dirceu, capo di gabinetto dell’ex presidente Lula. Dirceu è già stato condannato due volte per corruzione. Lula ora è agli arresti per altre accuse (non definitive), tra le proteste di milioni di sostenitori. Dal Brasile, i magistrati hanno trasmesso le carte in Argentina, Svizzera e Italia. Dove le indagini si sono allargate fino a coinvolgere direttamente la San Faustin e i quattro massimi esponenti della famiglia Rocca. Svelando il presunto ruolo segreto delle offshore.

Tangentopoli do Brazil
I magistrati di Lava Jato, nel novembre 2014, arrestano per corruzione Renato de Souza Duque, direttore della divisione servizi di Petrobras dal 2003 al 2012. Pochi mesi dopo, un suo amico fidato, Joao Antonio Bernardi Filho, confessa di avergli fatto da prestanome per gestire un tesoro di tangenti. La società-cassaforte si chiama Hayley ed è stata creata nel 2009 in Uruguay. Bernardi dichiara che la Hayley ha ricevuto numerosi bonifici da altre quattro offshore: Moonstone Inc, Emprendimientos siderurgicos, Gabiao investments, Bosland Champ. Tutte controllate, secondo quanto gli diceva il manager di Petrobras, dal gruppo Techint. I bonifici erano giustificati da contratti di consulenza ora considerati fittizi, perché la Hayley non aveva personale: si limitava a incassare soldi in Svizzera, trasferirli su altri conti e poi spenderli in Brasile, dove ha acquistato almeno 12 immobili e 14 quadri di grande valore.

Alle indagini brasiliane collaborano anche i magistrati italiani e svizzeri, che sequestrano i documenti bancari. Le carte mostrano che la Hayley ha incassato, in totale, 11,9 milioni di dollari. Di questi, almeno 8,5 milioni risultano versati, a partire dal 2009, proprio da tre delle quattro offshore già indicate, che a loro volta ricevono soldi da altre società, in particolare dall’uruguayana Fundaciones del Pacifico. Che ha come effettivo titolare la San Faustin: la holding che è al vertice del gruppo Techint. La stessa tesoreria ufficiale della famiglia Rocca è registrata come proprietaria della Emprendimientos siderurgicos: una delle offshore che hanno pagato direttamente la offshore marchiata Petrobras.

Una mazzetta tira l’altra
Le carte svizzere contengono una sorpresa: la Fundaciones del Pacifico ha pagato anche un secondo manager petrolifero brasiliano. Nel 2012, in particolare, quella società anonima bonifica 539 mila franchi svizzeri su un conto di Ginevra intestato all’immancabile offshore, Steambot Commerce Holdings. Il suo beneficiario è Jorge Luiz Zelada: il direttore internazionale della Petrobras.

I documenti bancari svelano altri segreti. A gestire i conti elvetici delle società immatricolate in Uruguay sono quattro manager, tutti identificati negli atti giudiziari come «dirigenti del gruppo Techint», tra cui spiccano l’italiano Umberto Bocchini e l’argentino Hector Zabaleta.
Come titolare delle offshore con il marchio nero di Panama, invece, compare un uruguayano, Marino Repetto, ufficialmente estraneo al gruppo, anche se è registrato dalla banca come «contabile della Techint». In questo caso i poteri di firma, cioè di muovere i soldi, spettano alla dirigente di due fiduciarie elvetiche (Gestorfin e Timacon), Anna Maria Giorgetti Cameroni. Che fa parte anche del consiglio di amministrazione della San Faustin di Lugano, la tesoreria svizzera del colosso industriale.
Interrogata dopo la perquisizione dei suoi uffici, nel 2017, la signora Giorgetti dichiara di lavorare da anni per Techint. Conferma di aver gestito i conti delle offshore panamensi come fiduciaria (cioè rappresentante riservata) del gruppo italo-argentino. Chiarisce che a darle quell’incarico e a impartirle tutte le istruzioni era sempre Hector Zabaleta, da lei conosciuto come manager della direzione di Techint a Buenos Aires, che però la incontrava solo nella sede di Lugano della San Faustin. E precisa di non aver mai visto Repetto, l’uruguayano che invece era stato indicato alla banca come l’unico proprietario delle due offshore panamensi.

Scandalo nucleare
Nel libro nero della Tangentopoli brasiliana c’è anche un capitolo da allarme rosso. Una società argentina del gruppo Techint è indiziata di aver pagato tangenti a un’altra azienda statale brasiliana, Eletrobras. La società sotto accusa si chiama Tebra e fa parte, con altre imprese, del consorzio Agramon, che si è aggiudicato la costruzione di una centrale nucleare, Angra III. L’ipotesi che la corruzione possa interferire nella corretta gestione di appalti così delicati è gravissima: con il nucleare il rischio è una catastrofe. Nel maggio 2017 i magistrati brasiliani avvisano d’urgenza i giudici argentini, che aprono un’istruttoria anche a Buenos Aires. Questa indagine si collega all’altro grande troncone di Lava Jato: la Corte dei conti brasiliana ha sospeso dagli appalti la Techint e altre imprese accusate di aver fatto parte del cosiddetto “club dei 15”, un cartello di aziende che si sarebbero spartite per anni le grandi opere pubbliche. A guidarlo era la Oberbrecht, l’ex colosso che pagava tangenti in tutto il Sudamerica.

Le accuse rivolte all’insospettabile Techint e il ruolo attribuito alle società offshore hanno portato i magistrati a rileggere sotto nuova luce anche una delicata vertenza fiscale italiana.

Evasione a Curaçao
Quando Agostino Rocca fondò la San Faustin, l’Uruguay era un rinomato paradiso fiscale e bancario. Nel 1990 la famiglia Rocca ha trasferito la holding a Curaçao, nelle Antille Olandesi, un Paese tuttora offshore. Nel 2009, in Italia, la Guardia di Finanza apre per la prima volta una verifica fiscale direttamente sulla San Faustin: secondo l’accusa, a Curaçao c’è una sede soltanto formale, allestita per minimizzare le tasse; in realtà l’intero gruppo è gestito da Milano e Buenos Aires. La società chiude il caso pagando tutte le imposte richieste per il periodo 2004-2009: 18,8 milioni di euro, sborsati nel 2012 dalla tesoreria svizzera della San Faustin.

Nel quinquennio incriminato, secondo la nostra polizia tributaria, le società industriali sparse nel mondo avevano riversato nelle Antille circa 700 milioni di dollari. Le tasse dovute in Italia, però, sono state ridimensionate grazie a una legge varata nel 2003 dal governo Berlusconi, che per tutte le holding estere ha ridotto gran parte delle imposte a poco più dell’uno per cento (1,375).
Con il patteggiamento fiscale, comunque, la famiglia Rocca ha accettato di spostare la capogruppo nell’Unione europea. Quindi la San Faustin, dal 2011, ha sede in Lussemburgo. E alle nostre domande, il gruppo Techint ha risposto che, dopo il 2009, «la tassazione sugli utili (tax rate) è sempre stata superiore al 30 per cento».
Con l’addio alle Antille, dunque, la Techint ha dichiarato chiusa l’era dei paradisi fiscali. Secondo i documenti esaminati dall’Espresso, però, molte offshore sembrano essersi soltanto trasferite o inabissate. Delle società panamensi ora coinvolte nelle inchieste per corruzione, in particolare, i magistrati conoscono solo i nomi e i conti svizzeri, ora congelati dalle indagini. Alcune, però, risultano ancora attive.

Tesorerie anonime
La Moonstone Inc, ad esempio, è stata costituita nel 2002 a Panama, dove non risulta ancora cancellata. Fino al 2001 alle Bahamas operava una società con un nome identico, ma con azionisti ignoti. La Gabiao Investments, l’altra panamense sotto accusa, è stata dissolta il 9 marzo 2017, mentre scattavano le indagini in Svizzera. L’atto di chiusura è firmato a Montevideo dal rappresentante unico degli azionisti: l’ormai noto Repetto.

Nel 2010, sempre a Panama, è nata un’offshore sconosciuta ai magistrati. Si chiama Sitionex ed è stata gestita per anni dagli stessi dirigenti già citati come manager Techint: Zabaleta e Bocchini. Nel marzo 2017, mentre l’indagata Gabiao chiudeva i battenti, la Sitionex ha cambiato tutti gli amministratori: il nuovo presidente è Carlos Manuel Frack, conosciuto in Argentina come professionista legato ai Rocca.
Gli incroci con persone collegate dagli atti giudiziari al pianeta Techint si ripetono in molte altre offshore finora ignote. Alcune hanno nomi ufficiali del gruppo, come la Techint Constructions (Tenco) attiva dal 1996 al 2016 alle Bahamas; varie Techtel (aperte in diversi Paesi); o la Tenaris Global Services di Panama, diretta da Bocchini.
Aprire società ufficiali in un paradiso offshore può servire, secondo i magistrati, a ridurre i controlli sui bonifici. Negli atti è citato l’esempio della Tenaris Global Services di Montevideo, che tra il 2007 e il 2009 paga due fatture, per oltre un milione di dollari, a una misteriosa società delle Bahamas, Top Oil Limited. La causale è una presunta mediazione nelle forniture della Techint al consorzio, guidato dall’Eni, che gestisce un maxi-giacimento in Kazakhstan. Per i suoi servizi, non precisati, la offshore delle Bahamas incassa esattamente il 5 per cento: secondo i magistrati, erano tangenti destinate al regime kazako. Ma qui nessuno rischia più nulla: quelle ipotetiche corruzioni sono già diventate impunibili grazie alla favolosa legge italiana sulla prescrizione.
Altre operazioni sono ancora sotto indagine. La Fundaciones del Pacifico, ad esempio, ha versato diversi milioni di dollari a personaggi di cui si conoscono solo i nomi in codice: Meringe, Perth, Antilaf, Lazory, Niebla...

Pacchi di soldi ritornano
Negli anni di Mani Pulite, ad assumersi tutta la responsabilità delle tangenti fu Paolo Scaroni, allora top manager della Techint in Italia, poi nominato da Berlusconi amministratore delegato dell’Enel e quindi dell’Eni. Nel giugno 1994, quando Scaroni confessa di aver versato 6,5 miliardi di lire ai partiti, l’allora pm Di Pietro gli chiede dove avesse trovato tutti quei soldi: gli azionisti sapevano delle corruzioni? A quel punto il manager racconta che in azienda gli venivano consegnati pacchi di «banconote procurate dai direttori finanziari: dal 1985 il dottor Fabrizio R., deceduto nel 1991, e poi Pietro P., morto due mesi fa». Scaroni giura di «non aver mai fatto cenno a Gianfelice Rocca» di nessuna tangente. Rimasto l’unico accusato, il manager patteggia una condanna a 16 mesi. E delle offshore, allora, non parla nessuno.

La scena dei pacchi di contanti si ripete più di vent’anni dopo, negli atti della nuova Tangentopoli, questa volta a Buenos Aires. I documenti bancari mostrano che le due offshore controllate dalla San Faustin hanno versato oltre 22 milioni di dollari su un conto svizzero, denominato Bigua, intestato a una società uruguayana, Isla Mayor. Come suo titolare è registrato il signor Lorenzo Fenocchietto, che muove soldi per mestiere: fa il cambiavalute a Montevideo. Quando scopre che il suo conto è sotto indagine, nell’aprile 2017 si precipita a Milano e confessa il suo ruolo ai magistrati italiani. Fenocchietto spiega di aver aperto quel conto nel 2002 per custodire soldi che la Techint non poteva più spostare, dopo il crack dello Stato argentino e il blocco dei depositi bancari. A dargli le istruzioni a nome del gruppo era Zabaleta. Fenocchietto precisa di aver lavorato segretamente per la Techint fino al 2015, cioè fino alle prime indagini brasiliane. Il suo ruolo era trasportare fondi neri: riceveva dollari sul conto svizzero, li cambiava in pesos e li portava nella sede Techint a Buenos Aires, per consegnarli a Zabaleta o al suo braccio destro. Nell’estate 2017 i magistrati milanesi hanno trasmesso i nuovi atti ai giudici argentini, per aprire un’indagine sull’intero sistema offshore. E scoprire chi possa aver beneficiato di tutti quei pacchi di banconote marchiate Techint.

Il gruppo: accuse infondate
L’azienda, interpellata dall’Espresso, respinge tutte le accuse, con risposte dettagliate. La San Faustin, dalla Svizzera, spiega di aver svolto «già dal 2016 un’indagine interna» affidando a uno studio americano indipendente e alla Kpmg «l’analisi di oltre 1,7 milioni di email e quasi 104 milioni di documenti di 157 società in 32 paesi», da cui «non è emerso nessun coinvolgimento in ipotetici reati». Anche la Techint italiana ha ordinato una verifica completa a Ernst&Young, «senza che sia emersa alcuna irregolarità». Mentre oggi le persone citate negli atti delle offshore «non ricoprono cariche nel gruppo».