Negli ultimi anni l'immaginario fascista ha riconquistato consensi e fascino, soprattutto tra i giovani. Mentre la Resistenza, ammantata di retorica istituzionale, suona perfino ipocrita. Per questo serve interrogarsi su come tutelare la memoria

Non so se il 2045 sarà simile a come lo immagina Steven Spielberg nel suo ultimo, smagliante film-videogame, Ready Player One. Proiettandolo a cent’anni dalla Seconda guerra mondiale, Spielberg mette in scena - sulla scorta di un romanzo di Ernest Cline - tutt’altro tipo di conflitto. Il protagonista è un diciottenne smanettone e a suo modo lucidissimo, ma quanto consapevole del passato? Nella sua giocosa furia citazionista Spielberg sembra voler porre - ironicamente e radicalmente - la domanda più impegnativa: che ce ne facciamo del passato? Ci serve davvero? Se già i nati nel 2000 faticano a orientarsi nelle cupe vicende novecentesche, per i nati nel 2027 sarà quasi impossibile.

Così, immaginare un 25 aprile 2045 diventa uno sforzo fantascientifico. Necessario, tuttavia, se ci sta a cuore il futuro, non già di una semplice ricorrenza, ma di una conquista epocale. Il tema non è nuovo, se di “crisi dell’antifascismo” uno storico come Sergio Luzzatto, nato nel 1963, parlava già nei primi anni del ventunesimo secolo. Uno storico nato nel 1982, Carlo Greppi, nel recentissimo “25 aprile 1945” (Laterza), ripesca le parole di un suo collega nato negli anni Cinquanta, Santo Peli, sulla “sopravvivenza della Resistenza”. Insisto sui dati anagrafici per inquadrare, di fronte al problema, tre generazioni di studiosi (e di cittadini) cresciuti e formatisi nel lungo secondo dopoguerra. Aggiungerei però un tratto non trascurabile: cresciuti e formatisi in presenza dei testimoni. Nonni, padri, fratelli maggiori: un paesaggio di reduci battaglieri, convinti - come diceva ancora un paio di anni fa Vittorio Taviani, il grande regista appena scomparso - di essere, di dover essere ancora i ragazzi della “notte di San Lorenzo”, di parlare e dover parlare da salvati anche per non lasciare nell’oblio i sommersi. «Quei ragazzi, quella gente, la fuga e la speranza, eravamo noi».


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L’ultimo film che i Taviani hanno firmato insieme è tratto da un romanzo di Beppe Fenoglio - il più eccentrico, il più bello in assoluto fra i romanzi resistenziali - e si chiama “Una questione privata”. È stato come chiudere un cerchio che si era aperto con lo stupore di spettatori ragazzini davanti al finale di “Paisà”: «Due mesi dopo la guerra era finita». È lo stesso stupore commosso raccontato da Umberto Eco, praticamente coetaneo dei registi, in un piccolo libro che negli ultimi mesi è salito in classifica, “Il fascismo eterno” (La Nave di Teseo). Si tratta della ristampa di un discorso tenuto dal semiologo alla Columbia University nel ’95: «In Italia vi sono oggi alcuni che si domandano se la Resistenza abbia avuto un reale impatto militare sul corso della guerra. Per la mia generazione la questione è irrilevante: comprendemmo immediatamente il significato morale e psicologico della Resistenza». Così ragionava Eco, e qualche pagina prima aveva direttamente evocato il «momento di gioia» vissuto con l’arrivo, nell’aprile 1945, dei partigiani ad Alessandria. Di lì, per Eco e per larghissima parte della sua generazione, il nesso inscindibile fra libertà e liberazione.


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Nel secondo decennio del ventunesimo secolo, è un nesso sempre più opaco. Ma è proprio su quel nesso che occorre investire. Da storico e da narratore, Greppi sceglie nel suo libro tre vite - quelle dei partigiani Cadorna, Parri e Longo - e ce ne mostra, letteralmente, l’intreccio. Ma fa lo sforzo di riguadagnare l’ignoranza delle conclusioni, prova cioè a scrutare le scelte compiute «senza sapere cosa sarebbe successo in quelle ultime settimane estive» del ’44, in autunno, in inverno, nella primavera seguente; «senza sapere dove sarebbero stati e se ci sarebbero stati, alla fine di tutto, otto mesi dopo». Non si sottrae perciò, fatto salvo il rigore dello storico, a una scommessa sull’immaginazione: «Come si può capire la giornata del 25 aprile, senza provare ad attraversare, anche solo in maniera impressionistica, il senso di sfida, di dramma, in certi periodi anche di tragedia o di scoraggiamento che ha caratterizzato l’esperienza resistenziale?». Senza provare a immaginare , aggiunge Greppi, lo spaesamento, le notti insonni e tutto il resto. Discorso storiografico, testimonianza e immaginazione possono trovarsi alleate?


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Non so come si possa concretamente colmare quel «grave deficit di credibilità» del discorso antifascista di cui parlava già quindici anni fa Luzzatto. So però che le giornate della memoria e le date segnate in rosso sui calendari non sono sufficienti. Soprattutto in ragione del fatto che, mentre perdeva credito l’immaginario antifascista, ne riguadagnava parecchio quello fascista. E sarebbe sciocco liquidare come inoffensivo e folkloristico, tanto quanto trattarlo con supponenza, il paesaggio giovanile descritto da Christian Raimo nel reportage-inchiesta “Ho sedici anni e sono fascista” (Piemme). Raimo, prima di arrivare a eventuali conclusioni, ascolta i ragazzi fuori dalle scuole, lascia che siano loro a raccontare il fascismo come «un grande padre severo, a cui dobbiamo rendere conto», la fascinazione per simboli, modelli organizzativi, stile di vita.

«Definiscono la loro scelta politica come esistenziale», osserva Raimo. È ingenuo pensare che il racconto della scelta politica ed esistenziale di chi entrò nella Resistenza possa essere un antidoto risolutivo. Lo stesso Raimo riflette su come l’“antifascismo musealizzato”, ammantato di retorica istituzionale, suoni perfino ipocrita per molti ragazzi, considerate le ingiustizie sociali che hanno sotto gli occhi. Eppure, trovare nuove forme di racconto credibile che, da emotivo, diventi politico nel presente, è necessario. Scrittori nati fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta ci stanno provando: penso ai lavori di Giacomo Verri, Simona Baldelli, Paola Soriga, Simone Ghelli che vanno in questa direzione.

In un romanzo uscito un paio di anni fa per Feltrinelli, “Rosso nella notte bianca”, Stefano Valenti (che in apertura cita proprio il Fenoglio della “Questione privata”), racconta il partigiano Ulisse. Lo racconta però sia nel 1944, in tempo di guerra, sia nel 1994, in tempo di pace, alle prese con l'Ur-Fascismo, come lo chiama Eco, che avanza sotto le spoglie più innocenti. Ed è una volta giunto alla fine del suo secolo che il partigiano Ulisse immaginato da Valenti - carico di sconforto ma non arreso - dice: «E ancora carrettate di vittime, uomini e donne inutili che percorrono queste distese aride in attesa di un’Italia più conveniente, un’Italia che non arriva, che non arriverà. E ora, nel nuovo ordine, nella grande deriva della controrivoluzione, mette tristezza che l’italiano non avverte fastidio nel dire “fascista”, che dirlo è diventato utile a fare carriera».