La letteratura è un posto libero e salubre, per la comunità. E oggi ci chiede un patto di responsabilità, all’insegna dell’eutopia, tra autori, lettori, editori, librai, docenti, studiosi, artisti e gente di passione

«Bufalino guardò il suo piatto: una fetta pallida di pollo, castamente orlata di spinaci. Poi, con quel sorriso gracile tipicamente suo, guardò quello di Sciascia, da cui debordava trionfante un osanna di pasta alle sarde. Era una bella tavolata sicula, era un peccato soffrire di gastrite mentre il cameriere benediceva le sarde con la mollica, ma Gesualdo alzò il bicchiere. «Brindo a Leonardo che mangia come io scrivo. E a me stesso, che mangio come scrive lui».

La sintesi era perfetta. La ricchezza e la goduria della lingua bufaliniana, ovvero il piatto di Sciascia, e la lingua essenziale ed esatta di Sciascia, nel rigoroso piatto di Gesualdo.

Anche Tomasi di Lampedusa (peraltro devoto al “troneggiante timballo di maccheroni”) distingueva tra scrittori “magri” e scrittori “grassi”, parlando di lingua ricca o asciutta, e trovava i magri soprattutto fra i francesi (Racine, Laclos), infiammandosi per i magrissimi La Rochefoucauld, Mallarmé e soprattutto per Stendhal, anoressico illuminista, non a caso anche amato da Sciascia. Dunque uno scrittore tornito come Tomasi in realtà ammirava la snellezza? No, il suo prediletto era il sovrappeso Shakespeare. E grasso, o comunque incline alla pinguedine, direi anche Brancati, il più proustiano degli autori siciliani.

Tutto questo per dire, posando forchette coltelli e ogni altra arma, che l’interpretazione della lingua può funzionare anche come un gioco, da quando il nostro vicino cavernicolo apostrofò la luna con un mugugno insolito, sino ad oggi, mentre rovistiamo nel testo della Ferrante cercando segni come tra le viscere di un uccello. Per trovare cosa?

Ecco la domanda prima, posta all’avvio di questa polemica che tante reazioni - ottimo segno - ha provocato. Quanto e come resiste la lingua letteraria - o dell’immaginazione - sempre più asfaltata e piastrellata dal mercato? Mi pare che tutte le risposte, specie divergenti, lo confermino: è una lingua dotata di superpoteri. Perché sovverte il linguaggio corrente (e ne abbiamo bisogno). Perché deriva da uno sguardo - ognuno il suo - trasformativo sulle cose. Lo avverto persino adesso, mentre scrivo, da quelle frecce rosse che il correttore automatico scaglia sui termini fuori norma.

«Preferisco perdere un lettore anziché ingannarlo», diceva Bernanos. E cos’altro è, quando scrivi, quell’ossessione per l’aggettivo o l’immagine giusta, questo affanno ìmpari fatto di estasi e colite, se non ricerca - stavo per dire amore - del lettore? Kafka lo chiamava “sentimento pesciforme”, un tremore che lo immergeva beato nella marea ondivaga dell’alfabeto.

Ed è qui finalmente che rilancio la pluri-domanda di Tiziano Scarpa : che cosa sono, adesso, gli scrittori e le scrittrici? Che prestazione svolgono nella società? Perché l’Italia - media istituzioni enti aziende - non li sostiene nel mondo come ambasciatori del proprio paese, come fa il resto d’Europa, che dà incentivi per la traduzione all’estero, sussidi, ospitalità in residenze ad hoc, borse di studio per i giovani? Perché l’Italia, proseguo con Scarpa, si sbraccia per gli autori stranieri e trascura i suoi?

Un paese beato non ha bisogno di eroi, ma di scrittori sì. Scrittori che si mettano a rischio, in gioco, per tentare una mappa di agibilità e senso nel nostro presente franoso. E se penso a Pavese Vittorini Fenoglio Soldati Bassani Buzzati Morante Ginzburg non è un omaggio rituale, ma è perché oggi questo riflusso di violenza è una risacca che ce li rende più vicini, e necessari.

E poi ho un timore, un dubbio. Che siamo stati anche noi scrittori, nella liquidità dell’era, ad aver buttato euforici e inconsapevoli l’aura nel macadam (a Baudelaire invece era caduta), delegittimando la nostra identità, moltiplicandoci nei social, trasformandoci per necessità in pubblicitari di noi stessi, cloni con più profili.

Non “si è” più scrittore, “si fa” lo scrittore - cercando visibilità e sèguito, tra like e cuoricini a dire il gruzzolo di credibilità, a suggerire l’idea che sia un mestiere fra i tanti, un hobby o peggio un commercio più giocoso e facile di altri. Come se scrivere non fosse vocazione e militanza, passione umiltà sacrificio, e non avesse, come tutte le vocazioni, una sua violenta necessità. Che ha bisogno del buio e del silenzio, spesso. Di molta solitudine. E si capisce che ti riscaldi ai like.

Quando mi chiedono la professione, davanti a un modulo, io non dico Scrittrice come sarebbe giusto, essendo la mia attività. Dico giornalista, anche se ho lasciato la redazione anni fa, perché somiglia più a un mestiere, e appare più utile e dignitoso all’impiegato.

Sto Flaianeggiando, dicendo «Coraggio, che il meglio è passato?». No, detesto l’apologia piagnucolosa del Prima, e il passato che più frequento, a dire il vero, è quello di verdura. Ma l’antiletteratura, come diceva Calvino, è una passione troppo letteraria per essere all’altezza dei bisogni attuali - dunque è pericolosa. Perché la letteratura - attenti, qui scoperchiamo un’altra polemica - non è solo narrazione, è di più. È un posto libero, e salubre, per la comunità. E oggi ci chiede un patto, furente e amoroso, fra autori lettori editori librai docenti studiosi artisti e gente di passione. Un patto di responsabilità, all’insegna dell’eutopia - che è una radura del giusto.