Dai 30mila euro di Forza Italia ai 5mila di FdI. Questi i contributi richiesti ai candidati. E senza finanziamento pubblico, si ricorre a contributi “esterni” e segreti. Così è in vendita la libertà

Legislatura breve? È la previsione che va per la maggiore, dato che a quanto pare nessun partito, nessuna coalizione, nessun polo avrà in tasca i numeri per esprimere un governo. E allora punto e a capo, dopo il voto c’è il rivoto. Sicuro? Con quello che costa candidarsi alle elezioni, gli eletti faranno carte false pur di non stracciare il biglietto vincente della lotteria parlamentare.

Ecco, quanto costa un posto nelle liste elettorali? Nei giorni scorsi è trapelata qualche cifra, benché in genere le cifre siano più segrete dei conti correnti svizzeri. E dunque, Forza Italia chiede 30 mila euro, pagamento anticipato. La stessa cifra, parrebbe, dovrà sborsarla chi viene candidato dal Pd. Però si tratta del contributo medio, che in concreto può scendere o salire in base alla posizione in lista (il capolista paga più di tutti), al tipo di collegio (quelli “sicuri” sono i più salati), alla regione interessata (l’Emilia costa più della Toscana). Come allo stadio, né più né meno. Se vuoi un posto in tribuna, ti tocca mettere mano al portafoglio; altrimenti devi contentarti della curva. Oppure non ti resta che cambiare stadio, seguendo squadre un po’ meno blasonate. Così, candidarsi nella Lega costa 20 mila euro, mentre con Fratelli d’Italia ne bastano 5 mila. E i 5 Stelle? Nessun salasso per gli aspiranti deputati, tuttavia chi sgarra si beccherà un multone da 100 mila euro.

Sicché il denaro entra nella campagna elettorale, la impregna, ne condiziona gli esiti. Come sempre, però una volta della cassa s’occupavano i partiti. Sparito il finanziamento pubblico, chi vuole posti al sole dovrà pagarsi l’abbronzante. Introducendo perciò un elemento collegato al censo, ai redditi del candidato, che in ultimo rende impossibile l’elezione per il disoccupato o l’indigente. Succedeva, d’altronde, pure durante l’Ottocento, quando il suffragio censitario escludeva dal voto larghe fasce della popolazione. Qui e oggi, però, il nuovo sistema sta virando verso una parola antica: plutocrazia. Significa potere della ricchezza, predominio del denaro (e di chi ne dispone) sulla vita pubblica. Da Berlusconi a Trump, non mancano gli uomini d’affari che hanno conquistato le chiavi del governo, anche grazie al loro patrimonio. Eccezioni, che tuttavia ormai esprimono la regola, sia pure in scala ridotta. Quei due sono miliardari, ma fra la tassa che paghi al tuo partito e le spese della campagna elettorale (da 20 a 60 mila euro, per i candidati di collegio), difficile provarci se non sei quasi milionario.

Però un’alternativa c’è: lo sponsor. Forza Italia (evviva la franchezza) l’ha messo nero su bianco in una dichiarazione da depositare nella sede romana del partito: il contributo da 30 mila euro potrà essere erogato anche da terzi, con assegno o con bonifico bancario. E a quel punto il terzo, vestito da Befana, avrà diritto alle agevolazioni fiscali. Oltre a qualche ricompensa da parte dell’eletto, giacché la gratitudine dopotutto è una virtù. Guai però a domandare ai finanziati i nomi dei loro finanziatori: c’è la privacy, che diamine. La stessa parolina magica che protegge le 65 fondazioni politiche, che raccolgono quattrini in gran segreto. Del resto gli obblighi di trasparenza, quand’anche fissati dalla legge, vengono regolarmente disattesi: secondo uno studio di Openpolis, nelle elezioni del 2013 solo 4 politici hanno presentato un rendiconto, denunciando i propri mecenati. Eppure i contributi esterni, la volta scorsa, pesarono per il 72 per cento del finanziamento.

Da qui un esito perverso: la compravendita della libertà parlamentare. Che oltretutto avviene in forme opache, oblique, surrettizie. Anche perché in Italia manca una legge sulle lobby (negli Usa c’è dal 1946), nonostante 55 progetti di legge via via depositati in Parlamento. E perché alle nostre latitudini non esiste una vera disciplina sull’anagrafe patrimoniale degli eletti, né circa la loro anagrafe «pubblica», su cui i radicali insistono dal 2008. Morale della favola: ci siamo sbarazzati del finanziamento pubblico ai partiti, per adottare un finanziamento mascherato. Paga l’eletto, che a sua volta viene pagato dal capetto. Evviva.