Aboubakar Soumahoro è una delle personalità emergenti della nuova politica. Sindacalista dei braccianti, sostiene che la caccia allo straniero è solo un’arma di distrazione dal vero problema del nostro tempo. Ma non risparmia attacchi alla sinistra: «Sul lavoro destra e sinistra hanno prodotto le stesse politiche. Occorre creare una coscienza collettiva»

Si spalanca e genera un’empatia istantanea il volto antico e spigoloso di Aboubakar Soumahoro, trentottenne italoivoriano, ex bracciante, sindacalista Usb, una laurea in sociologia presso l’università Federico II di Napoli e una vita a lottare per i diritti dei diseredati, dei braccianti, dei migranti, di chi è sfruttato.

È senza dubbio una delle personalità emergenti nella politica che lascia dietro sé il pietoso e feroce 2018, l’anno in cui tutto si è rivoluzionato ed è terminata la Seconda Repubblica, peraltro mai iniziata ufficialmente.

Nonostante il suo pudore, Aboubakar Soumahoro incarna una delle avanguardie della sinistra italiana in un tempo di avvilente assenza di personalità significative. Sin dalla sua prima apparizione nella galassia mediatica, quando denunciò le condizioni tragiche in cui è maturato l’omicidio del bracciante maliano Soumayla Sacko, suo amico e collega, la cui salma ha riaccompagnato lui stesso dalla provincia di Vibo Valentia in Africa, Soumahoro ha suscitato entusiasmi nel popolo progressista, per l’intensità con cui ribadisce verità basilari e rivendica le ragioni della politica più pura: abbattere le discriminazioni, l’alienazione, lo sfruttamento.

«Viviamo in un Paese sotto spasmo. Piazza del Popolo a Roma trabocca di fan di Salvini e a Torino 50mila persone si ritrovano per dire no a Tav. La reazione alle politiche aggressive del governo si misura eccome. Non Una di Meno ha portato in piazza nella capitale 150 mila persone sui diritti femminili e di genere, mentre sulla questione dei bambini nella mensa di Lodi si è toccata con mano una sollevazione nazionale. Questa reazione mette a nudo la continua falsificazione portata avanti dalle destre, che esasperano le frustrazioni di un popolo stremato da decenni di politiche aggressive e speculative, condotte ai suoi danni. Da subito, dal caso della nave Diciotti, è stato mostrato fino a che punto la manipolazione dell’opinione e la falsificazione della propaganda siano giunte. La sospensione dei diritti di una manciata di profughi ha portato forse cibo nei piatti dei disoccupati o delle famiglie monoreddito, che non riescono non dico a tirare fine mese, ma nemmeno le prime due settimane? Ha per caso consentito un miglioramento di vita ai precari, che devono mettere insieme tre lavori in una giornata per arrivare a un reddito indecente? Ha dato risposta ai giovani costretti a prendere voli low cost, per trovare altrove uno straccio di lavoro? La questione dello sfruttamento e dell’abbrutimento, imposto a tutta la collettività e non solo riguardo al lavoro, va rimessa al centro. Quando perfino nel contratto di governo si scrive che negli asili nido va inserita una differenza tra bambini, ci troviamo di fronte a un problema serio, che non è soltanto economico e materiale, ma è di pura crisi valoriale».

Tutto ciò avviene in una nazione che il recente rapporto Censis definisce sotto sovranismo psichico.
«C’è una modalità della politica di destra che aumenta e approfondisce la distrazione di massa, nascondendo il problema autentico, che è lo sfruttamento generalizzato. Questo colpisce tutti i ceti, tutti i corpi sociali, tutti i soggetti deboli. Il cosiddetto Decreto Sicurezza, produce marginalità. Le donne, i giovani, anche i bambini vedono erosi i loro diritti. A distanza di 70 anni dalla dichiarazione universale dei diritti umani e della stessa Costituzione italiana, si ripristinano leggi non razziali, ma razziste, esattamente come sette decenni orsono si fece in Sudafrica».

Ti occupi da anni di lavoro. Tra insicurezza e smantellamento dei diritti di base, si è creato un avvitamento che impoverisce la società nella sua interezza.
«Giuseppe Di Vittorio diceva che quando i lavoratori non riescono a fare fronte ai loro bisogni più vitali, cioè alle necessità delle loro famiglie e delle loro creature (“creature”: questa parola umana che porta con sé tutto!), significa che siamo in una fase di abbrutimento, che riguarda oggi tutti i lavoratori, i precari, i braccianti, gli operatori dell’era digitale, quelli della pubblica amministrazione - persino i lavoratori dello Stato finiscono sfruttati, coinvolti in processi di esternalizzazione e nuovo padronato. Questo degrado riguarda anche la massa di giovani, free lance e precari, anche del cognitivo, che ormai lavorano a cottimo quanto un bracciante che si spacca la schiena nel Pavese o a Reggio Calabria. Si tratta di un impoverimento che la nostra Costituzione doveva e deve rovesciare, dando dignità a chi lavora».

Il Jobs Act ha fallito proprio in questo, non restituendo dignità ai lavoratori.
«Quella riforma è precisamente la più aggressiva espressione della decadenza contemporanea in termini di diritti. Trasforma la precarietà lavorativa in precarietà esistenziale tout court. Si è andati a spezzare l’elemento della comunanza, che una volta si chiamava solidarietà di classe. Ma si è assistito alla cancellazione di questo vocabolario, alla sua archiviazione nel nome di un progresso che non è tale, spesso andando oltre persino il sistema schiavista, in cui perlomeno i padroni tenevano alla salute dei propri schiavi, perché producessero più e meglio. Il Jobs Act, che è tuttora in funzione, non è certamente una questione soltanto italiana, sia chiaro. Il lavoro oggi va trasformandosi secondo il modello dell’isolamento che colpisce chi è al servizio delle famiglie, nella sonante assenza dello Stato, che spazza via ogni welfare e costringe poveri pensionati ad affidarsi a colf e badanti con costi insostenibili. La risposta a questa situazione è tornare a unire i lavoratori, non in base al colore della pelle o alla provenienza geografica, ma in forza del loro bisogno comune, che in questo caso è vedere riconosciuta la dignità. I lavoratori vanno messi in condizione di unirsi intorno a un principio assai semplice, nell’era del dumping sociale: stesso lavoro, stessa paga. Stessa mansione, stesso salario. E stesso diritto alla previdenza sociale. Va rimessa al centro la persona, che è tale prima ancora di essere chiamata lavoratore o lavoratrice».

Delinei una sfida che non riguarda soltanto l’Italia: è una globalizzazione dei diritti di dimensioni internazionali.
«Stiamo attraversando una fase che possiamo descrivere parafrasando Frantz Fanon, il celebre esponente del terzomondismo: nella struttura economica delle colonie, si è ricchi perché si è bianchi e si è bianchi perché si è ricchi. È sufficiente oggi essere lavoratori e lavoratrici, per dirsi garantiti? Dal punto di vista della regressione dei diritti generali, si assomiglia tutti sempre di più a quei lavoratori che vengono delocalizzati, nella ricerca di un profitto sempre più massimizzato, attraverso la massimizzazione della capacità di sfruttamento. Sono due dimensioni che viaggiano insieme, in una prospettiva globale. Ecco perché non si può evitare di orientarsi in una dimensione internazionale».

Il mercato dei nuovi player globali, come Amazon, oltrepassa gli Stati e tende addirittura a sostituirli.
«Il processo di internazionalizzazione deve organizzarsi e procedere intorno a parole chiave accessibili. Ci troviamo di fronte a quelli che Di Vittorio definiva i grandi monopoli e che oggi potremmo chiamare grande distribuzione organizzata, giganti economici ad alta tecnologia, che riescono a spostare la produzione oltre i confini, sfruttando le debolezze di lavoratori atomizzati e spaesati, che vivono esistenze sospese. La risposta a questa feroce delocalizzazione, che non risparmia nessun diritto dei lavoratori, è imperniare la lotta sul principio a cui accennavo prima: stesso lavoro, stesso salario. Ovunque sia spostata la produzione, il costo del lavoro deve essere il medesimo, per non creare sperequazioni».

Però non è più sufficiente occuparsi solo del salario.
«Non si può lottare soltanto per un salario nominalmente dignitoso, senza porsi domande inerenti alla mobilità sociale o al tema del diritto all’abitazione. Per non dire della questione giovanile o dei pensionati, fasce di popolazione diversamente abbandonate a se stesse. O anche della vita nelle città, dove assistiamo a un’espulsione di massa dei precari dal diritto di abitare nel centro, perché si sta proiettando e realizzando l’ideologia di una city più o meno smart, in cui non si devono avere sotto gli occhi i non abbienti, che vanno colpevolizzati e nascosti ai margini. Bisogna essere presenti ovunque. Ogni territorio va trasformato in finestra aperta sul mondo».

Si assiste al progressivo scollamento tra Stato e cittadini.
«L’esasperazione delle persone va compresa. Veniamo da decenni in cui lo Stato, nelle sue articolazioni anzitutto governative, ha praticato un picconamento scientifico dei diritti dei cittadini nel loro spazio vitale. Questo è il contesto in cui si inserisce il governo attuale, che ha promesso di dare diritti e dignità a tutti. Lo Stato può essere garante di tutti i soggetti, in un mondo in cui la ricerca del profitto viene portata avanti fino alla disumanizzazione e tutto è interpretato come merce? Lo Stato può e deve tornare a mettere al centro l’essere umano, salvaguardandone i diritti e la dignità. Nel momento in cui si fa invece promotore di un messaggio di odio, i cittadini finiscono per agire quel rancore, che sembra la risposta allo sfruttamento e alle disuguaglianze. Ma la realtà è ben più composita e articolata di quanto faccia figurare il messaggio di odio lanciato da chi interpreta lo Stato».

Se la risposta delle destre all’esasperazione è chiara, ciò che si è chiamato sinistra ha ancora un senso, almeno in questo Paese?
«Lo smantellamento dei diritti è stato continuo e coerente negli ultimi decenni. Prima degli Ottanta le leggi dello Stato ampliavano i diritti e il reddito cresceva. Dagli anni Novanta è stato dato inizio a un enorme calo dei salari e a un innalzamento progressivo della precarietà. Dal pacchetto Treu fino al Jobs Act, si osserva la realizzazione di un progetto unico, nell’alternarsi dei governi di colore opposto. D’altra parte prendiamo l’esempio delle leggi che sono state approvate nel corso degli anni sul tema dei migranti. Partendo con la Turco-Napolitano, una filosofia di razzializzazione viene portata avanti dalla Bossi-Fini, dalla Minniti-Orlando e infine dall’attuale decreto Salvini, senza soluzione di continuità, nonostante l’alternanza di centrosinistra e centrodestra al potere. È tutto coerente, anche quando consideriamo sanità, previdenza, istruzione. Quanto è stato eretto in questi anni ha portato all’attuale condizione di smarrimento dei valori, fino al punto di dire che non c’è differenza tra destra e sinistra. Ciò a cui bisogna lavorare è federare le comunità di ultimi, di sfruttati, di abbandonati, che hanno pagato il prezzo di riforme tanto devastanti. La ricomposizione di cui parlo è il momento in cui la diversità non è un elemento per scatenare una caccia alle streghe: essere donne o gay o lesbiche non diventa fattore discriminatorio, che acuisce o mantiene disuguaglianze, come il gap salariale tra uomini e donne. Costituisce invece l’uscita dalla politica delle discriminazioni, per aumentare l’angolatura dei diritti».

La giustizia sociale non è che un aspetto delle trasformazioni planetarie imposte dal vecchio e nuovo capitale.
«È necessario mirare alto e provare a coniugare la giustizia sociale con temi epocali, come quello dell’ambientalismo. Sappiamo che per via dei cambiamenti climatici, entro il 2050, ci saranno 250 milioni di persone costrette a cercare di sopravvivere spostandosi, l’80 per cento delle quali vive nei paesi del sud del mondo. La percezione dell’invasione dei migranti in Italia è del tutto scorretta, ma è evidente che masse immense saranno costrette alla diaspora non solo per l’esclusione, ma anche per i cambiamenti climatici, dovuti anzitutto al modello di industrializzazione che si è imposto. Emerge drammaticamente, sotto rinnovate forme, il legame tra capitale e natura. Tutti i temi epocali non possono che viaggiare insieme. La causa ambientalista e l’esclusione sociale, la discriminazione delle classi povere, l’antisessismo. La lotta per i diritti non può avvenire all’interno di muraglie, nell’innalzarsi di confini, negando agli esseri umani la libertà di circolazione e consentendola invece soltanto alle merci e ai capitali».

Parli del nesso tra capitale e natura. Che fase del capitale è quella che stiamo vivendo, con l’accelerazione tecnologica che va a trasformare definitivamente il mondo del lavoro?
«Ci sono ambiti di lavoro che andranno comunque avanti con le forme storiche che noi conosciamo. La trasformazione tecnologica si porta dietro la possibilità della cancellazione fisica dei posti di lavoro. È un processo oggettivamente in corso. In questa trasformazione accade che lo Stato rischi di diventare a sua volta operaio al servizio del capitale privato. Uno degli ex commissari Ue diceva che, se l’Italia avesse accettato le indicazioni della trojka, ci saremmo trovati nella condizione di uno Stato colonizzato. Quell’ex commissario era Mario Monti. Continuava, dicendo che nell’attuale contesto il capitalismo, non avendo più il suo antagonista, non si dà neanche più forme di autoregolamentazione. Ma quando mai si è autoregolamentato il capitalismo? Sarebbe opportuno portare a consapevolezza la domanda su chi governa la convergenza tra industria, grande distribuzione e digitalizzazione. Già solo a livello di social network si vive come se non importasse chi li detiene, li controlla e quali strategie sociali applica. La fisionomia del nuovo capitalismo è in alto grado sfuggente».

Abbiamo vissuto decenni in cui è stato interdetto qualunque valore ai simboli. Oggi ci ritroviamo al potere una destra che emette simboli in continuazione, dai confini all’uomo nero. Tu stesso sei diventato una sorta di simbolo, per molte persone che ti hanno conosciuto attraverso i media. Perché si torna a una politica dei simboli?
«Va detto intanto che simbolo proprio non desidererei esserlo. Tuttavia mi rendo conto che c’è uno smarrimento. L’individualismo radicale è stato indicato come unica soluzione sociale, con la promessa a ciascuno che da soli si sarebbe riusciti a farcela. La speranza e la proiezione sui nomi e sulle singole persone che attualmente governano nasce da questo disagio. Il problema va risolto in un altro modo, creando una coscienza collettiva, che si assuma la responsabilità di uscire dall’impoverimento generale, non affidandosi a capitani suppostamente coraggiosi. Una coscienza collettiva che non sia chiusa in sé, ma capace di portare a processi di mutamento dello status quo, in termini di welfare, giustizia sociale, istruzione, sanità, tutela dell’ambiente. Più che simboli, la proposta è di attivare una coscienza collettiva, capace di risolvere l’isolamento delle persone, altrimenti facilmente sfruttabili. Questa non è una teoria del mondo: è la cruda realtà. L’hanno compresa le donne, gli operai, i giovani, che giustamente chiedono speranza, a fronte di questa situazione. Noi dobbiamo dare speranza, metterci gli stivali e scendere nei campi in prima persona. Dobbiamo interpretare quel disagio, promettere di risolverlo - e mantenere quella promessa».