Il grande regista era innamorato del Paese himalayano: c'era stato da giovane e nel 1992 volle girare lì "Il piccolo Buddha". E quando tre anni fa arrivò la devastazione del terremoto...

«Lei ha scritto tanto sul Nepal, mi venga a trovare, ho un'idea».

Era la fine d'aprile del 2015 e la voce dall'altra parte del telefonino era quella di Bernardo Bertolucci. Non l'avevo mai conosciuto: per me era soltanto un mito del cinema, fin dai tempi di "Ultimo tango". Mi aveva cercato lui, per via del terremoto: il Nepal era appena stato devastato da una serie di scosse spaventose, dei cui reali effetti si sapeva ancora poco, se non che era stata una strage sia per le persone sia per il patrimonio culturale. E del Nepal Bertolucci voleva parlarmi, perché “aveva avuto un'idea”.

Andai a Trastevere, nella casa che aveva ben attrezzato per consentirgli di muoversi anche con la sua disabilità alle gambe. Il salone era un cinema, praticamente: si chiudevano le persiane e il videoproiettore illuminava una parete - o un telone, questo ora non lo ricordo.

Il film che Bertolucci stava rivedendo quando sono entrato era inevitabilmente “Il piccolo Buddha” del 1993, che aveva girato per buona parte a Bhaktapur, uno dei tre nuclei storici di Kathmandu, trasformando la sua piazza medievale nel palazzo in cui era nato e cresciuto Siddharta – e da cui era infine uscito per scoprire e salvare l'umanità.

Certo, da un punto di vista filologico quella di Bertolucci era un'imprecisione: la Durbar Square di Bhaktapur è un tripudio di templi, padiglioni, statue e palazzi che artisticamente del buddhismo sono figli, quindi non ci potevano essere nella reggia in cui era cresciuto il primo Buddha. Eppure proprio grazie ai quei templi in stile newari, quelle finestre di legno istoriate, quei gradini e quei tori di pietra, Bertolucci era riuscito a rendere perfettamente la spiritualità e la grandiosità di pensiero in cui è sorto il buddhismo.

E poi, se proprio vogliamo metterla sul filologico, in fondo Bertolucci un po' aveva ragione: Siddharta è nato e cresciuto nell'attuale Nepal, non In India come molti credono,

Per farla breve, comunque, del Nepal Bertolucci era innamorato.

Non è difficile, s'intende, rimanere affascinati dalla magia di quelle piazze, di quei monumenti vivi in cui ancor oggi giocano i bambini, passano le capre e vengono stesi i panni. Ma il grande regista ci era rimasto mesi - non la classica toccata e fuga dei turisti - e si era lasciato avvolgere da quel grandioso senso di umanità, di magia, di passato, di speranza, di vitalità che è il Nepal.

A quei luoghi insomma si era profondamente legato.

Tra l'altro li aveva conosciuti già prima di girare Il Piccolo Buddha: c'era stato per la prima volta negli anni Settanta, con la moglie Clare People. «Un viaggio di iniziazione», lo definiva il regista. Per questo poi loi aveva scelto per “Il piccolo Buddha”: «Tutto era decorato, in ogni centimetro, architetture e sculture mirabili in cui l'arte buddista si fonde con quella induista e troviamo Buddha insieme a Visnu Kali e Ganesh», diceva.

Per tutto questo mi aveva chiamato a casa sua. Per parlarmi del Nepal e per sentirne parlare. Ma soprattutto per aiutarlo a realizzare la sua idea, a fare qualcosa per quella gente e quei luoghi dopo il terremoto.

Si mise subito in moto, dalla sua sedia a rotelle. Telefonate di là dell'Atlantico, ma anche all'Auditorium di Roma. A chiunque potesse essergli utile nell'organizzare una grande serata per il Nepal, con proiezione del “Piccolo Buddha” e incasso devoluto alle vittime e alla ricostruzione.

Con la voglia di un ragazzo, in pochi giorni Bertolucci riuscì a fare tutto. La serata si tenne, all'Auditorium appunto, e fu un incredibile successo. La sala era pienissima, nonostante il costo molto alto – mi pare che l'offerta minima fosse di 50 euro. C'era mezzo mondo del cinema, attrici di fama, un paio di ministri. E dall'America era venuto apposta Keanu Reeves, che in quel film aveva interpretato proprio il giovane Siddharta nel palazzo.

L'incasso fu diviso a metà tra Emergency, che aveva preparato una spedizione di aiuti medici, e il Children Village di Pokhara, un orfanotrofio che con quei soldi riuscì a ridare un alloggio ai suoi bambini e ad altri rimasti senza tetto per il terremoto.

Ecco, oggi com'è giusto i critici e cinefili oggi raccontano la grandezza del Bertolucci regista. Io, che di cinema so poco, posso e voglio ricordare la sua grandezza d'animo, e ringraziarlo a nome dei nepalesi.