Tra spritz ?e tartine, così un rito conviviale è diventato categoria dello spirito

Prima il Pleistocene poi l’Olocene, infine l’Apericene. È l’era geologica del presente, figlia dell’Antropocene, anche se aborrite frittatine e Spritz. È la tartina di tornasole del nostro modo di stare al mondo. Prensile, ibrido, smart, comodo, multifunzionale.

L’apericena che dà il nome all’era è infatti molto più che un rito socio-mondano o una diffusa pratica di consumo. È un paradigma di pensiero, un pensiero fungibile e autoreverse. È uno spazio, anzi un interspazio urbano dove il confine si vaporizza e sfuma (bar/pub/trattoria/discoteca) dall’orario alla destinazione d’uso (merenda/aperitivo/cena), è intergenerazionale, interclassista, ha un prezzo unico e medio-basso e raccoglie sullo stesso piano cibi dolci e salati, amici amanti colleghi, tacco 12 e espadrillas bucate, disoccupati e manager, cravatte regimental e felpe stinte, incontri di lavoro e pause dallo stesso, capelli fucsia e fronti stempiate, tutto né freddo né caldo - infatti il cibo resta esposto a lungo, deve durare, dunque meglio in monoporzioni a evitare sprechi e piatti stracolmi - non si parla con la bocca piena, né si spettegola bene.

Se l’Apericene è un’era, l’apericena è dunque una categoria dello spirito, non solo nel senso dell’etanolo. È il sogno dell’inclusione facile, è il tempo della precarietà, ma anche dell’opportunità. C’è chi all’apericena trova un contatto di lavoro (beh, fluidissimo, per due settimane) e chi un partner (of course fluido, polivalente). L’era dell’Apericene, coi suoi confini labili, è quella del poliamore, del sentimento multiplo, delle relazioni aperte, dove nel segno dell’ibridazione si mischiano le forme, tra relazioni miste e sentimenti mobili, tensione analogica con digitale.

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Ogni epoca ha d’altronde i suoi spazi, quelli in cui si esprime di più e che la raccontano per sineddoche.

Ci fu un momento - l’avreste detto? - in cui il pianerottolo era una specie di scenario geopolitico. Come regolare il traffico e le precedenze?, gli italiani lo chiedevano ansiosi alle rubriche dei giornali. E come agire quando c’è gente che esce dall’ascensore, vicini che entrano in casa, e ospiti che se ne vanno, e tutto questo insieme, per non creare trambusto e dissapori? Irene Brin, alias contessa Clara, dettava leggi e spiegava come muoversi, con “semplicità naturalezza e bontà” in quel piccolo ring di doverosa e fragile prossimità.

Anche le rubriche dei giornali del resto sono “spazi sociali”, e anzi in passato più influenti di quelli reali, soggetti allora a frequentazioni distinte per sesso, cultura e classe sociale.

Erano gli anni Sessanta, ma ancora lontani dal ’68, e l’ingresso nei nuovi condomini chiedeva nuova segnaletica, cui rispondevano con tono accurato (anche accorato) le rubriche sulle riviste. Come districarsi in ascensore, se dentro c’è un uomo e tu sei donna? È giusto conversare? E di cosa? Chi deve aprire la porta, e chi uscire per primo - ah rieccoci - sul pianerottolo?

Se la questione scorporava sui corpi, o si faceva umida e ambigua, veniva affrontata tra le rubriche dell’Anima, solitamente affidate a sacerdoti, persino in Amica e Annabella, sino al ’74.

Ma nessuna ricerca storica, nessun saggio accuratissimo potrà mai raccontarci come eravamo davvero, e come sembrava giusto essere - dalle manovre di igiene intima a quelle del traffico urbano - meglio dell’Enciclopedia della donna dei Fratelli Fabbri, anno 1964 (oggi lettura sorprendente, insieme tragica e comica) che ammoniva fanciulle e maritate a non frequentare locali di dubbio genere (altro che apericena, o peggio un Happy hour, peccaminoso anche nel nome) e comunque mai senza marito. Ma eravamo appunto nell’Olocene. E fioccavano centinaia di galatei e prontuari per ogni spazio privato e comune, dall’auto al tram, dal tavolo al talamo, in un’ossessione maniacale per segnare limiti e forme, pertinenze e liceità, ombre e sconvenienze, ma soprattutto per le fanciulle, sempre a rischio di onorabilità e censure.

Ma torniamo all’Apericene, che come ogni era ha anche una sua narrazione, un timbro. La sua sintassi è ibridata, contaminata, a statuto pronominale misto - ha cioè tutte le persone declinate insieme, io tu lui lei noi voi essi. E produce storie intersecate, random, dove fra tavolini e calici, tablet o scrivanie si mischiano i linguaggi, tecnico e letterario, giovanile e professionale, stile alto e basso, italiano-inglese-dialetti-slang, correzione T9 e sms a risposta automatica. Una lingua che frulla intimità e chiacchiera, sesso e politica, scatti in carriera e genitori anziani, Philip Roth e colesterolo cattivo, i fatti miei e quelli degli altri, il dito sempre a chattare o controllare Facebook, ma soprattutto le visualizzazioni delle tue stories su Instagram.

L’Apericene, figlia dell’Antropocene, è l’era della compulsività, del multiuso che sconfina nel predatorio, nei confronti della natura, dell’umano, delle cose. Forse il suo interprete estremo è Robert Wilson, filosofo post punk sostenitore del movimento 000, Object Oriented Ontology, che dice che non c’è un Fuori, e siamo tutti contaminati e impregnati dalla “viscosità” venefica degli iper oggetti - il riscaldamento totale, i rifiuti, le radiazioni. E in ogni caso ci avverte: la fine del mondo è finita.

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E quanto alla scrittura? Quali testimonianze lasceremo ai posteri che studieranno tremuli i nostri documenti? Spiace crederlo, ma probabilmente sono oggi le serie televisive americane, più dei romanzi, a esprimere al meglio la variazione e compresenza di prospettive e sguardi, con le loro narrazioni policentriche, sfalsate, insieme ellittiche e diffuse, giocate su registri, visivi e linguistici, ad alta espansione, con varietà di toni dal cinico al tenero, dall’ironico al tragico, dall’io al tu. Come The Affair , che mette in scena integrandole nell’ordito le due versioni della stessa vicenda, diversamente vista da due personaggi, o House of cards , col protagonista che ogni tanto evade dalla narrazione “oggettiva” e onnisciente e guarda negli occhi lo spettatore, pronunciando una sorta di didascalia che destabilizza i piani ma stranamente potenzia il personaggio.

Forse è proprio la decontestualizzazione, è l’amalgama impura che segna il pensiero dell’Apericene, che fonde e neutralizza, trita e concilia gli estremi, destra e sinistra, vero e falso, cattolici e razzisti, dal “Fascismo democratico” (per dirla con Badiou) alle Fake news, alle Fake Truth. È il perturbante che nasce dalla confessione pubblica, dal segreto di massa, nei locali e nei social. Dall’essere insieme intimi ed estranei, nudi e mascherati, su Tinder o sul tappeto, col tempo contato di Snapchat. È il pensiero miscelato di Trump, è il suo biondo-pesca da alieno, con ciuffo anti scollamento. Forse fra qualche migliaio di anni i ricercatori interessati all’Apericene ne leggeranno i lasciti nel sontuoso vascello di Damien Hirst, coi suoi finti tesori di plastica e oro riemersi dagli abissi marini. O nei pupazzi disperatamente euforici di Jeff Koons.

Io come icona vedrei quel genio di Vik Muniz, che ricrea immense visioni materiali a partire da Leonardo o dalle favelas, utilizzando scorie industriali, rifiuti e persino scarti alimentari, come spaghetti riso e cioccolata. Il che, muovendo dall’Apericena, ci sta pure.