Silente. Inerme. Lo presentavano come un Tavor politico. E invece dal Quirinale scala i social e surclassa i tweet del governo. Con l’ironia

Arriva felpato, è il minimo che si possa dire. Il passo pneumatico, quasi che fosse trasportato da un tapis roulant, l’indefettibile completo scuro che un sarto potrebbe avere finito di cucirgli addosso due minuti prima, la cifosi incipiente che ne incassa il venerando capo, aureolato da una pettinatura vaporosa e turchina, un sorriso dolce e lontano dal ghigno che inarca le labbra alla generalità dei politici sotto i riflettori. Pare la perfezione del “De Senectute” o l’apoteosi dell’archetipo del nonno.

Si ferma davanti al microfono che gli spetta e pronuncia parole definitive: «Nelle prossime ore assumerò un’iniziativa». Sarebbe una frase priva di spunti e inventiva, l’ultima possibile a candidarsi tra i trend topic sui social. Invece lo diventa, perché c’è qualcosa di troppo umano, in quella chiusa del discorso che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, emette tra la tensione dei cronisti e l’odio che il futuro vicepremier, Luigi Di Maio, gli lancia addosso, chiedendone l’impeachment.

Era il maggio tumultuoso, Mattarella bocciava il nome di Paolo Savona al ministero dell’economia, come da prerogative sancite dalla Costituzione, e l’Italia scopriva di essere guidata da un presidente pop. Tutto ci si poteva attendere, tranne che Mattarella sfondasse il muro della cultura popolare, inarcandosi nell’immaginario collettivo. Qualche segnale lo aveva lanciato. Nel febbraio 2014, a un mese dalla sua elezione, era timidamente salito a bordo di un volo di linea, come un cittadino qualunque. Il massimo del grillismo concesso da questo ineffabile inquilino del Quirinale. Qualche tempo dopo, era sull’aereo di Stato e ne era circolata un’immagine surreale, ai limiti della più verticale tra le beffe situazioniste: Sergio Mattarella, in volo a 10mila metri da terra, rivolto all’oblò, saluta il pilota di un caccia militare che lo scorta (si impose lo hashtag #MattarellaSalutaAerei).

In quello scatto appare come sempre azzimato, perfettamente sartoriale, illuminatamente a disagio con la gestualità in cui deve impegnare il proprio corpo. Mattarella è poetico a partire dal rapporto con il suo stesso fisico. Il corpo del capo è carico di aspettative, detiene una potenza taumaturgica, incarna il carattere decisionale o la scaltrezza strategica, la furbizia che non arranca dietro la sconfitta. È l’ipotenusa di un triangolo i cui due lati restanti sono costituiti dal carattere variamente felino e dalla provvisorietà della carica. Dal corpo presidenziale passa la storia del pop quirinalizio. Leone che fa le corna in pubblico, distonico rispetto alla nazione e allo scandalo Lockheed. Pertini che si china sul buco in cui è incastrato Alfredino, oppure si alza esultante in tribuna al Bernabeu. Cossiga che offre a favore di camera la propria vitiligine per aumentare la vena sardonica, con cui destruttura la prima Repubblica. Scalfaro sotto choc, quando viene aggredito dalla calca ai funerali di Borsellino. La cigliosità risorgimentale di Ciampi. Napolitano che tuona ingobbito, come un Cincinnato dell’era digitale, quando viene incoronato una seconda volta per incapacità del Parlamento.

A fronte di questi nomi e momenti storici, cosa poteva Sergio Mattarella, presentato come un tranquillante politico, dopo l’eccesso di decisionismo del suo predecessore? Ci si attendeva un silenzio assordante, come amano dire i giornalisti.

Il fatto è che Mattarella non è per nulla il gentiluomo inerte che sterilizza la carica. Quando il premier attuale, che è il vicepremier dei suoi vicepremier, biascica di “un congiunto” di Mattarella, non ricordandosi che si tratta del fratello Piersanti, trucidato dalla mafia, egli intercetta in modo turpe il tragico e la positività dell’uomo che è oggi posto a custodia della Costituzione. La foto è storica, un bianco e nero drammatico: 38 anni fa, una domenica di gennaio, Sergio Mattarella sta sorreggendo il fratello agonizzante, la portiera dell’auto è spalancata, i capelli del futuro Presidente sono spaventosamente mossi, lo sguardo di chi cerca aiuto nel nulla.

Sergio Mattarella evolve da quel buco nero della storia, sua personale e della nazione. A contatto con un cadavere si è immaginato finora il solo Pertini, tra chi ha rivestito il ruolo più prestigioso della Repubblica. È a partire da quei momenti di altissima tragedia che Sergio Mattarella va a scolpire il proprio commovente abbraccio ai parenti delle vittime del Ponte Morandi, annullando per umanità applausi e fischi ai funerali di Genova.

È un uomo che ricorda di essere stato provato e da lì parte per effondere un’umanità che, tra i trascorsi colleghi democristiani, soltanto Aldo Moro esprimeva con una simile dolce naturalezza. La statura mite e la cartesiana preveggenza politica del presidente Dc sono forse i tratti che maggiormente intridono di sé il settennato in corso, in cui Mattarella ha celebrato con un’intensità toccante il teorico delle convergenze democratiche: «Non gli sfuggiva la pericolosità di tanto imbarbarimento della vita politica e civile» e anche «Aldo Moro è l’Italia del valore umano».

Aldo Moro è l’Italia del valore umano. Si fatica a reperire nelle dichiarazioni istituzionali degli ultimi anni un’affermazione così profonda e pietosa. Questa mitezza ferma, questa bonomia che non è il contrario dell’intelligenza strategica propria di chi guida le sorti di un Paese complesso come l’Italia, è la radice inscalfibile dell’azione di Sergio Mattarella, il motivo per cui il gradimento nei suoi confronti è schizzato in questi giorni al 65% e aumenta, ben al di sopra dei leader governativi. Ai quali Mattarella non può piacere. Ne è anzi il nemico preternaturale.

Le disposizioni legislative, a cui pensano o che propongono al vaglio del Presidente i rappresentanti del governo, sollecitano teatralmente i limiti costituzionali. Mattarella non può prescindere dal suo ruolo di garante, quindi automaticamente è l’opposizione istituzionale al governo. Qualcosa di molto diverso, rispetto a quanto accadde con i molteplici governi Berlusconi, quando la sinistra si aggrappava al Capo dello Stato, perché bocciasse le leggi e costituisse l’opposizione politica, che non riusciva a fare dai banchi del Parlamento o nella società.

Qui non c’è nessuna sinistra che proietti la propria insufficienza sull’azione morbidamente determinata del Presidente. Mattarella di fatto è l’ineccepibilità che si alza e dice di sé: “Presente”. Quando Giorgetti prefigura il superamento del Parlamento o Grillo assalta i poteri del Quirinale perché non coincidono più con il suo modo di pensare, si tratta di attacchi mossi a quell’ineccepibilità. Sbagliano: sottovalutano l’obiettivo.

Mattarella è capace di surclassare perfino la bassa comunicazione, che Salvini e Di Maio e tutti i loro accoliti praticano dai tetti e nei loro live, sfoderando dentature sorprendenti. Arriva un tweet del Quirinale, per smentire l’invio del Def, e ottiene il quadruplo dei like che Salvini conquista con la sua banalissima comunicazione social.

Per non dire quando il Presidente risponde divertito e paradossale, per lettera, a “Propaganda Live”. Non è trascurabile l’appeal pop di Mattarella e questo si converte in enorme problema per le spinte istituzionalmente eversive del governo gialloverde.

Ecco, la trascurabilità di Mattarella. La suggerisce all’osservatore superficiale il suo incedere da cauto doroteo, il sentimento di scomodità ad abitare il proprio corpo, il suo perenne vaghissimo sorriso da buddhismo democristiano. Ma è un inganno. Sempre bisbigliando nitidamente, è arrivato a dire che «la storia insegna che l’esercizio del potere può provocare il rischio di fare inebriare, di perderne il senso di servizio e di fare invece acquisire il senso del dominio», indicando nell’autoironia e nell’equilibrio tra poteri gli antidoti al crollo. Questo è un manifesto per la tenuta democratica. Sono parole da incidere ovunque, sussurrate da un uomo che l’Italia sta imparando ad amare sempre di più.