Biografie degli attentatori. Diari dei combattenti. Memoir sulla radicalizzazione. Dal Pakistan agli Usa, saggi e romanzi raccontano l’estremismo 

«E' nata una stella? A metà del 1998 la Casa Bianca lancia un altro cattivo sul palcoscenico mondiale: risponde al nome d’arte Osama Bin Laden, è fondamentalista islamico, porta barba e turbante e sul ventre accarezza un fucile. Farà carriera questa nuova stella? Avrà successo al botteghino?...». Nel 1998, così si chiedeva lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano in “A testa in giù”. Oggi, a trent’anni di distanza, il bilancio è chiaro: lo sceicco saudita e i suoi eredi, tra cui spicca il parricida Abu Bakr al-Baghdadi, hanno sbancato il botteghino. Imponendosi non solo sul piano politico e militare, ma anche su quello editoriale. Prima saggi, analisi, ricerche. Ora, sempre più, anche narrativa. Quella sul terrorismo islamista è una produzione varia e articolata, contraddistinta da un elemento comune: il tragico è stato rimosso. Il dilemma morale espunto. E con essi la responsabilità individuale. Altri tempi rispetto ai primi del Novecento, quando il socialista rivoluzionario Boris Savinkov mandava alle stampe romanzi a puntate come “Cavallo pallido”, dando voce al dilemma tragico del terrorista. Il quale sa che «uccidere non è permesso, è una colpa incondizionata e imperdonabile», e tuttavia sa anche che deve assumersi la colpa. Così almeno sosteneva il filosofo György Lukács, come ricorda Vittorio Strada nel recente “Il dovere di uccidere. Le radici storiche del terrorismo” (Marsilio).

Di filosofi oggi non c’è più bisogno. Il modo in cui la letteratura racconta la violenza politica è cambiato. La narrativa sul terrorismo islamista è descrittiva, compiaciuta o assume compiti moralizzatori, non più tormentata e tragica. Una tendenza già evidente nella narrativa italiana sugli anni di piombo, ha notato lo scrittore Demetrio Paolin in “Una tragedia negata” (il Maestrale) e poi il critico Gianluigi Simonetti ne “La letteratura circostante” (il Mulino). Dove viene proposta una scansione delle modalità narrative con cui il terrorismo è stato raccontato in Italia che sembra valida anche per quello islamista.

«Nel corso degli anni Ottanta», scrive Simonetti, «si susseguono, a ritmo sempre più intenso, le testimonianze dei militanti del partito armato». Prima che alla fine degli anni Novanta «diventi un sottogenere riconoscibile» e approdi ai racconti autobiografici veri e propri, il filone viene inaugurato con il modulo dell’intervista pilotata, della testimonianza ibrida, «quasi sotto tutela». Qualcosa di simile è accaduto con l’islamismo armato, come testimonia l’autobiografia “sotto tutela” “My Life with the Taliban” (Hurst) del Mullah Abdul Salam Zaeef, ex ambasciatore talebano in Pakistan, dei ricercatori Alex Strick Van Linschoten e Felix Kuehn, che hanno fondato a Berlino la casa editrice The First Draft Publishing, specializzata in testi autobiografici dei combattenti afghani. Testi che scommettono sull’autenticità delle storie raccontate, perché vissute in prima persona, con protagonisti carismatici, spesso ammantati di un’aura romantica.

Convertiti e “sotto tutela”

Rientra a pieno titolo nel genere memorialistico “Radical. Il mio viaggio dal fondamentalismo islamico alla democrazia di Maajid Nawaz “(Carbonio editore,), un inglese di origini pachistane, già reclutatore del partito radicale Hizb-ut-Tahrir, divenuto poi presidente di Quilliam, associazione contro gli estremismi. Maajid Nawaz non ha scelto la lotta armata, ha aderito a un partito che ambisce a restaurare il Califfato, ma la sua storia incarna quella che Simonetti definisce la parabola di conversione: «dal riconoscimento della colpa all’espiazione finale, e da questa alla conquista di nuova identità». Nawaz conduce agilmente il lettore nell’immaginario politico di Hizb-ut-Tahrir, ma il libro è privo di vis tragica. Il dilemma morale è reso innocuo dalle finalità edificanti del Nawaz “convertito”. Perché se il diritto alla parola passa per l’abiura, per uno sguardo retrospettivo che sa ormai distinguere il bene dal male, a venir meno è la forza conturbante del testo, che diventa rassicurante, consolatorio. Per chi scrive e per chi legge.

Carnefici senza qualità

La stessa impressione si ricava dalla lettura del bel romanzo del giornalista e scrittore Pascal Manoukian, “Ciò che stringi nella mano destra ti appartiene” (66thand2nd 2018). Figlio di algerini musulmani, il protagonista Karim è innamorato di Charlotte, figlia di armeni cristiani, da cui aspetta un figlio. Charlotte muore in un attentato terroristico al bistrot Zébu Blanc, a Parigi. Uno dei due jihadisti che l’ha uccisa è Aurélien, compagno di classe di Karim alle elementari, convertito e reduce da diversi viaggi in Siria. «Come ha fatto la vita a metterli su due orbite così diverse?». Per rispondere, Karim intraprende un rischioso viaggio verso la Siria: «Vuole affrontare il mostro, tagliargli la testa o perdere la sua». In Siria incontra «ragazzini che, con un semplice volo low cost, sono passati dalla strada di casa alle rovine fumanti di Aleppo». Sfoggiano kalashnikov e arroganza e come Aurélien - «attentatore che non prova niente» - sembrano privi di qualunque dilemma morale. Sta qui il limite del romanzo di Manukian. Assecondando la sua vocazione giornalistica, l’autore dice e spiega tutto, dal risentimento delle seconde generazioni al ruolo dei reclutatori su Internet, ma non riesce a scavare fino in fondo nei personaggi “ambigui”, ricondotti dentro una narrazione riduttiva o manichea, di semplice adesione ideologica al male o di ingenuità. Una scelta che non spiega, ma al contrario occulta la tragicità delle scelte individuali.

Neanche Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev sembrano avere responsabilità vere e proprie. Autori del duplice attentato alla maratona di Boston che il 15 aprile 2013 ha provocato la morte di 3 persone e il ferimento di altre 264, sono i protagonisti del romanzo-inchiesta della giornalista Masha Gessen “I fratelli Tsarnaev. Una moderna tragedia americana”, (Carbonio). Un libro che si muove tra verticalità della ricerca di fonti, interviste, documenti e atti processuali e l’orizzontalità dell’elemento romanzesco. Il risultato è affascinante. L’autrice guida il lettore dal Khirghizistan al Daghestan, da Novosibirsk alla Calmucchia, dalla Cecenia a Cambridge, nel Massachusetts, ricostruendo le tappe di una famiglia alla costante ricerca del posto migliore in cui far crescere i propri figli. Gli Stati Uniti appaiono perfetti. Ma «il momento era il peggiore tra quelli possibili: gli Tsarnaev approdarono in America proprio quando quelli come loro», musulmani e caucasici, «erano visti con molto sospetto». Il sogno americano diventa una tragedia. Bravissima nel ricostruire il contesto famigliare, sociale e politico, l’autrice finisce però con l’attribuire proprio al contesto, con eccessivo determinismo, la scelta stragista dei fratelli Tsarnaev: «Bastava essere nati nel posto sbagliato nel momento sbagliato, come capita a molte persone, non sentirsi mai inseriti, vedere sfumare tutte le occasioni, anche quelle apparentemente a portata di mano – finché l’occasione di essere qualcuno finalmente, quasi casualmente, si presenta. E qui la piccola storia degli Tsarnaev si unisce alla grande storia della Guerra al Terrore».

Una violenza estetizzata

Anche Alessandro Gazoia sceglie una forma ibrida, tra narrazione e saggistica, per “Giusto terrore. Storie dal nostro tempo conteso” (Il Saggiatore). Più che sul terrorismo di per sé, la sua è un’indagine sulla capacità mitopoietica e autopoietica dei gruppi terroristici, dalle Brigate Rosse di Curcio allo Stato islamico di al-Baghdadi. Sorretto da buone e consapevoli letture e da una scrittura sorvegliata ma disinibita, l’autore combina insieme Michel Houellebecq e Gillo Pontecorvo, Salman Rushdie e l’imam Khomeini, Enrico Ghezzi e il Bataclan. Storia e finzione. La finzione che si fa storia. Il punto di vista non è quello di un protagonista, ma di uno spettatore. È una scelta simile a quella compiuta da Alberto Arbasino che nel 1978, nei due mesi che separano il sequestro dall’omicidio di Aldo Moro, scrive “In questo stato” (nuova edizione Garzanti), «un “libretto di conversazioni», una «performance tutta corale, aperta, spalancata, registrazione e appropriazione “personale” e “politica”» dell’attualità. A quarant’anni di distanza, il “libretto di conversazioni” di Gazoia, pur restando aperto e spalancato, diventa più intimo, perché la società è meno corale, e la registrazione personale e politica passa inevitabilmente per un immaginario nutrito di immagini mediatiche, oltre che di parole. Se il racconto sociale degli anni di piombo «è dipinto a tinte scure, scorate, il marrone e il grigio dominano l’impasto cromatico», con il terrorismo islamista il contesto è sociale perché mediatizzato. «Il terrorismo è solo una minuscola lanterna magica che proietta ombre lunghissime», scrive Gazoia. La violenza è estetizzata, ricondotta dentro l’infinito gioco di rimandi dell’immaginario mediatico. La violenza dell’uomo sull’uomo, ripetuta, replicata, riflessa sugli schermi, è definitivamente svuotata del suo carattere tragico, l’elemento su cui il terrorista Boris Savinkov e il filosofo Lukács si interrogavano all’inizio del Novecento.

Capolinea Guantanamo

Negato dalla letteratura sui protagonisti della violenza terroristica, il carattere tragico della libertà personale torna evidente quando questa è negata. Così nella coinvolgente storia raccontata dall’egiziano Youssef Ziedan, docente di filosofia islamica e sufismo, in “Guantanamo” (Neri Pozza). La trama è semplice: un giovane arabo del Nord del Sudan viene rapito nella zona di confine tra Pakistan e Afghanistan. Venduto da un agente corrotto pachistano, finisce nella famigerata prigione afghana di Qandahar. Accusato di essere sposato con una jihadista, di aver voluto incontrare Osama bin Laden e i Talebani, da Qandahar è trasferito a Guantanamo.
«Ci hanno vestito con una tuta intera di un arancione acceso, eravamo dei fantocci, zoppi, doloranti e miseri… occhi smarriti che non sapevano da che parte rivolgersi». A Guantanamo diventa «un nemico combattente, quindi un prigioniero di guerra, la guerra contro il terrorismo». Gli attribuiscono una nuova identità. «Tu sei 6-7-6». Sopravvivere non è facile: «non sperava più né di restare rinchiuso né di venire rilasciato, adesso voleva soltanto trovar pace da quella vita». Ritrovarsi è quasi impossibile. «Ero stato sposato un giorno, e un tempo avevo un nome con cui mi chiamavamo la mia famiglia, i miei vicini, i miei compagni di scuola. Che cosa studiavo, qual era il mio nome?». Eppure, il protagonista continua un dialogo costante, moralmente esigente con la propria anima e con Allah, interlocutore invocato, amato e temuto, riflette giorno e notte sulla forza della propria fede, sul peccato, sull’eterna ricerca di giustizia dell’uomo, negata dal potere e dalle istituzioni repressive. E proprio quando scopre, tragicamente, che «possiamo soltanto fissare smarriti i meandri delle nostre anime», ritrova la libertà: «I giorni a venire si riempiranno di felicità, e di speranza... e di luce. Il sole è la più perfetta luce di Dio sulla terra. E al cielo si volge libera l’immaginazione».