Nessuna iniezione letale ma scompenso cardiaco: così si legge nelle ottanta pagine che hanno portato alla libertà Daniela Poggiali, sospettata di essere una serial killer. Ora  la procura generale bolognese avrà un mese e mezzo di tempo per decidere se ricorrere o meno in cassazione contro la sentenza 

“La paziente non è morta per un’iniezione letale di potassio, ma per un grave scompenso glicemico”. Sono le parole che mettono, almeno per il momento, la parole fine al controverso caso giudiziario di Daniela Poggiali. L’ex infermiera dell’ospedale di Lugo, nel Ravennate, prima condannata all’ergastolo per aver ucciso una paziente e poi, appena due mesi fa, rimessa in libertà dalla corte d’assise d’appello di Bologna “perché il fatto non sussiste”. A pronunciare quelle parole sono proprio i giudici che hanno ridato la libertà alla Poggiali, in ottanta pagine di motivazioni che ripercorrono la caduta nel baratro dell’infermiera, fino ad arrivare alla condanna a vita e poi alla sua rinascita. Una storia che ha sconvolto l’Italia e che ha valicato i confini nazionali, perché per lungo tempo Daniela Poggiali è stata sospettata di poter essere una spietata serial killer in grado di uccidere decine e decine di pazienti. Oggi invece è una donna libera, che sta lentamente cercando di ricomporre il puzzle in frantumi della propria vita, macchiata dall’onta del sospetto.
 
Certo, anche i giudici d’appello non sono stati teneri nei confronti dell’ex infermiera, descritta come una “persona per certi versi disturbata, capace di condotte riprovevoli o di mentire, ma nel contempo scaltra e pronta”. Per non parlare poi del noto episodio delle fotografie con i pazienti morti, condannate senza mezzi termini dai magistrati come: “inumane”. Ma basta questo per fare di lei un’omicida? Sono sufficienti dei comportamenti sbagliati, un carattere complesso e alcuni sospetti per lasciare una persona nell’oblio del carcere senza fine? Evidentemente no, secondo i giudici servono “prove oltre ogni ragionevole dubbio”.

Uno dopo l’altro sotto la penna del giudice estensore Piero Messini D’Agostini sono capitolati i pilastri su cui si fondava il castello accusatorio. Partendo dalle indagini “fai da te” del personale ospedaliero sul decesso della paziente Rosa Calderoni, la 78enne per la cui morte la Poggiali era stata condannata. Medici e tecnici di laboratorio in quei giorni fecero ispezioni che non dovevano essere fatte, sbagliarono la lettura di referti e soprattutto, secondo i magistrati, alcuni di loro non erano nelle condizioni per valutare l’operato di quell’infermiera, per via dei dissapori nelle loro relazioni. Arrivarono persino a predisporre un’autopsia interna della paziente deceduta, senza avvertire la procura di quanto era accaduto. Una serie di errori che hanno portato inevitabili dubbi nel processo. Dubbi mai risolti e che solo una perizia terza, disposta direttamente dai giudici, poteva chiarire.
 
È proprio la perizia, in questo processo, ad aver fatto la differenza. Dopo tre anni di sospetti, a luglio di quest’anno gli esperti nominati dalla corte d’appello di Bologna hanno infatti detto la loro, in un documento choc che per la prima volta ha portato risposte nel caso giudiziario e non dubbi. Il primo aveva riguardato la morte di Rosa Calderoni, per cui era stata aperta per la prima volta la strada del decesso per cause naturali. Poi la presenza di potassio a livelli sballati nell’umor vitreo della paziente, basato su calcoli che non hanno alcuna rilevanza di tipo scientifico. Le carte in mano all’accusa sono risultate perdenti una dopo l’altra, fino ad arrivare al ritrovamento del deflussore pieno di potassio tra i rifiuti speciali. Reperto per cui oggi arriva una risposta mai data prima: “non era il solo presente nei bidoni”, ma soprattutto “non è riferibile con sicurezza a Rosa Calderoni”. Non serviva altro per giungere alla conclusione più logica, quella di un ribaltamento della sentenza di condanna in primo grado.
 
“È a tutti gli effetti una sentenza che sgretola ogni accusa – commenta l’avvocato della Poggiali, Lorenzo Valgimigli –, ne escono distrutti anche il movente e il presunto depistaggio. Insomma: un ribaltamento a 360 gradi. A settembre ci sarà l’appello sui furti in ospedale e se fin qui abbiamo dimostrato che Daniela Poggiali non è un’assassina, ora dimostreremo che non è nemmeno una ladra”.
 
A questo punto la procura generale bolognese avrà un mese e mezzo di tempo per decidere se ricorrere o meno in cassazione contro la sentenza di assoluzione. Nel frattempo l’ormai ex infermiera trascorre le sue giornate al fianco della madre, gravemente malata di alzheimer e bisognosa di cure continue. Da un po’ di tempo sta però anche pensando al suo futuro e a un nuovo lavoro che sicuramente si presenta tutto in salita. In un piccolo paese le voci corrono e la macchia di quanto accaduto sarà difficile da cancellare.