Era un sentimento privato e contraddittorio. Ma oggi è diventato un sistema, una pratica politica non sfiorata dal dubbio. E per questo servirebbe riconquistarne il suo senso originale

È più difficile dire «ti odio», «vi odio». Forse per una sorta di pudore, per una ritenzione lessicale, quando l’humus sociale e una certa subcultura politica  sono sempre più intossicati da un odio “normale”, sdoganato, contrabbandato  per opinione.

Come nel film The Lobster non si sente quasi mai pronunciare un “ti amo”, perché l’amore, l’amore di coppia, non è più sentimento ma legge, istituzione, obbligo a cui sottostare, pena la trasformazione in animale; così in questo spezzone del film scadente che ci tocca di guardare, se non recitare, anche l’odio sembra uscire sempre di più  dalla sfera dei sentimenti per farsi prassi, programma, sistema. E infine azione politica, in un futuro in cui dovessero prevalere le forze che lo fomentano, lo normalizzano. Un odio istituzionalizzato a cui aderire, come nella distopia del film di Yorgos Lanthimos, pena la trasformazione in uomo, in questo caso. L’uomo che, prima di ogni altra cosa, riconosce nell’Altro un altro uomo.

Certo, non siamo in questa distopia parallela a The Lobster . Ma al netto del tratto surreale, assurdo del film, non è difficile intravedere una trama vagamente simile nella non-fiction in cui viviamo. L’odio-sentimento si ritrae per ripresentarsi sotto forma di politica, una politica già vista e ripugnante come l’insetto-Samsa. Il privato è pubblico, metamorfosi kafkiana di uno slogan. Ironia della storia. Ed è pubblico in modo evidente nell’odio.

Qualcosa è cambiato, nota la saggista e giornalista tedesca Carolin Emcke, perché «si odia in maniera sempre più aperta e sfrenata... Troppo spesso senza alcuna vergogna». Perché «l’esibizionismo del risentimento ha ormai ottenuto una rilevanza pubblica, addirittura politica». Perché «si tratta di un risentimento collettivo di natura ideologica».

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Nulla di nuovo. Al contrario. Si rispolverano manifesti di Salò con il negro-animale, si incita alla violenza in nome dello Stato. E mentre un leader politico italiano di primo piano è arrivato a parlare di “pulizia etnica”, piccole comunità devote si ritrovano sulle barricate all’arrivo di pullman carichi di disperazione. Nulla di nuovo, appunto: Germania anni 30 e 40, Balcani anni 90.... Che sono ancora un’altra storia, grazie a dio. Ma sono figli della stessa metamorfosi. Quella che trasforma l’odio in “cultura militante”. In politica di igiene etnica e sociale, di difesa di comunità immaginate, assediate.

La metamorfosi che eclissa l’umanità, di chi odia e di chi è odiato. Perché non si incontrano più volti, storie, individualità; e quindi si può odiare senza colpa: l’obiettivo dell’odio non esiste in quanto uomo, ma solo in quanto collettività, “razza minacciosa”. «Non si può odiare bene in maniera precisa, perché la precisione implicherebbe una certa delicatezza, uno sguardo o un ascolto mirato, quello sforzo di differenziazione che nella singola persona con tutte le sue qualità e inclinazioni, riconosce un essere umano», riflette ancora Carolin Emcke, autrice di “Contro l’odio”, appena pubblicato in Italia da La nave di Teseo, dopo aver acceso il dibattito in Germania.

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Persino il volto del criminale da odiare per il suo crimine, quando è un volto “altro” non è più il volto di un criminale-persona. Solo quando lo scopriamo tra di “noi”, anche nel moto d’odio verso il suo crimine siamo pronti a dire «sembrava un così bravo ragazzo» nel rosario mediatico delle “testimonianze”. E leggiamo la sua storia, imbastiamo i nostri processi privati, per poi dividerci tra innocentisti e colpevolisti.  L’“altro” non è più volto, persona. È prima di tutto un “non-noi” collettivo da odiare in quanto tale. Non si merita un odio individuale.

Lo scorso febbraio Amnesty international ha dedicato un dettagliato rapporto al ritorno della politica dell’odio, ai suoi pericoli. Ai leader che usano la retorica del “noi contro loro”. Una retorica «che sta dominando l’agenda politica in Europa, negli Stati Uniti e altrove creando un mondo sempre più diviso e pericoloso». «Il cinico uso della narrativa del “noi contro loro”, basata su demonizzazione, odio e paura, ha raggiunto livelli che non si vedevano dagli anni trenta dello scorso secolo», ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty international. I soliti buonisti. Il rapporto parlamentare Jo Cox, (dal nome della europarlamentare britannica uccisa da un fanatico lo scorso anno) presentato qualche mese fa a Montecitorio, ha messo in rilievo che solo il 17 per cento degli italiani è animato da sentimenti positivi e di amicizia verso chi fugge da guerre e miseria per tentare di raggiungere le nostre coste. E non più del 22 li tollererebbe come vicini di casa, «se si comportassero in modo “adeguato”».

I soliti allarmisti-buonisti, anche gli estensori del rapporto Jo Cox. Come quelli dell’Ecri (European commission against racism and intolerance), che segnalano da tempo un aumento  degli episodi di razzismo in tutta Europa con vere e proprie aggressioni nei confronti dei migranti e delle strutture di accoglienza destinate ad ospitarli.

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L’odio viene prima, prima di tutto, prima dell’amore, perché va sempre considerato in rapporto alle pulsioni di autoconservazione, secondo la psicanalisi freudiana. Ma poi si placa, si addomestica, soccombe, o dovrebbe, lungo i percorsi del “principio di realtà”. A meno che non si viva in quel perenne stato pulsionale che sembra essere diventato in molti casi un programma politico nelle nostre società.

Dovremmo allora cominciare a usare categorie politiche, persino giuridiche, per comprendere e tentare di arginare la metamorfosi dell’odio. Cominciando da concetti come giustificazione, per provare a rimettere in piedi un dibattito pubblico a testa in giù, nel quale sembra che siano il gesto, le politiche, l’attitudine umani a doversi giustificare e non il loro contrario. O più semplicemente appellandosi al diritto positivo, ai codici, per sottrarre il dibattito pubblico alla truffa della pari legittimità delle opinioni e degli atti politici. In Italia esiste una legge (N. 205, 25 giugno 1993) che punisce l’istigazione all’odio e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi. C’è da chiedersi quanto siano diventate larghe le maglie di questa legge, se quasi ogni giorno manifestazioni di odio razziale politiche e mediatiche alimentano il dibattito pubblico invece che il lavoro di qualche tribunale.

Ma attenzione, una “giustificazione” ce l’hanno i fomentatori d’odio: la preoccupazione, ormai elevata a categoria politica. «Il concetto di cittadino preoccupato ormai funge da scudo verbale contro analisi più approfondite.... come se la preoccupazione in sé fosse già un’argomentazione convincente (...) anziché un semplice stato d’animo che può essere giustificato ma anche ingiustificato», scrive ancora Carolin Emcke in “Contro l’odio”. «I cittadini preoccupati possono tranquillamente odiare gli immigrati (...) il cittadino preoccupato ormai è sacro», conclude.

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Ridateci l’odio, quel sentimento che quando non sconfina nella follia, nella violenza privata, è umano, persino fragile. Spesso incerto, contraddittorio: odi et amo.