La nuova legge elettorale? Dipenderà dal gusto dei cannoli. È l’ultima ricetta dei partiti, impegnati ormai da mesi attorno alla riforma del doppio Consultellum che attualmente regola la trasformazione dei (nostri) voti nei (loro) seggi. Un sistema caotico e bislacco, non a caso additato dal presidente Mattarella come il principale ostacolo alla governabilità. Perché alla Camera c’è un premio di maggioranza, al Senato no. Perché ?al Senato la soglia di sbarramento è all’8%, alla Camera basta acciuffare il 3%. Perché da un lato il territorio viene suddiviso in 100 collegi, dall’altro lato solo in 20. Perché ?di qua imperano i capilista bloccati, di là le preferenze. Infine perché ?le coalizioni sono incoraggiate al Senato, scoraggiate alla Camera.
Insomma, un pastrocchio. Che oltretutto va a spalmarsi su una struttura politica e istituzionale a sua volta pasticciata: due Camere, tre poli, quattro giocatori (Pd, 5 Stelle, Lega, Forza Italia). A giugno sembrava che i quattro si fossero accordati sul proporzionale alla tedesca proposto da Emanuele Fiano; poi un emendamento sul sistema elettorale del Trentino ha riacceso la baruffa, spedendo la legge ai nastri di partenza. Sarà per questo che adesso le loro truppe marciano dalle Alpi alle Piramidi. La nuova parola d’ordine è infatti questa: Sicilia. Tutti fermi fino al voto siciliano del 5 novembre, tutti con un binocolo puntato su Palermo per osservarne il clima.
Domanda: ma che c’entra? Dov’è ?il nesso fra il successore di Crocetta e il succedaneo dell’Italicum? Vattelappesca. Magari si tratta d’un pretesto che serve a guadagnare tempo, a traccheggiare fin quando sarà troppo tardi per cucinare qualsivoglia riforma della legge elettorale; ai partiti il Consultellum piace, anche se dichiararlo in pubblico dispiace. Oppure stanno usando quelle elezioni alla stregua d’un sondaggio, per misurarsi, ?per testare i reciproci consensi, regolandosi poi di conseguenza nell’officina della riforma elettorale. Per i siciliani è un voto, per i partiti ?un videogame.
C’è però anche un’altra spiegazione. Se lorsignori hanno bloccato gli orologi in attesa del 5 novembre, è perché dalla Sicilia s’attendono un messaggio, un’illuminazione. Su tutto, non soltanto sulla legge elettorale. Sulle strategie politiche così come sulle riforme istituzionali. Dopo aver masticato e poi sputato il modello tedesco, francese, spagnolo, americano, ora banchettano con il modello siciliano. D’altronde la nostra isola maggiore è sempre stata anticipatrice e levatrice di nuovi equilibri, o meglio equilibrismi. Negli anni Cinquanta accadde con il milazzismo, dal nome di Silvio Milazzo, eletto presidente della regione con i voti del Msi e del Pci, destra e sinistra unite contro la Dc. Nel 2001 la Sicilia incoronò re Berlusconi, regalandogli 61 collegi su 61. Ora va in scena l’opera dei pupi.
Come? Con il puparo Orlando, che ?a Palermo ha ricostituito la santa alleanza dell’Ulivo, divenendone sindaco per la quinta volta. O con il pupo Ferrandelli: sfidante di Orlando nel 2012 con la casacca del Pd, ?ri-sfidante nel 2017 nel nome di Forza Italia, alle regionali di novembre sostiene il candidato proposto da Orlando. Del resto in Sicilia cambia sempre tutto affinché non cambi nulla, diceva Tomasi di Lampedusa. Ne è prova il raffronto fra queste elezioni ?e quelle precedenti: nel 2012 per i ?5 Stelle c’era Cancelleri, e c’è anche adesso; a destra c’era Musumeci, e c’è anche adesso; mentre a sinistra ora c’è Fava, che nel 2012 non c’era, ma solo per l’irregolarità del suo certificato di residenza.
Ma ne è prova altresì il paesaggio istituzionale siciliano, oltre che quello politico. Con una legge elettorale sui comuni dove ?basta il 40% dei voti per diventare sindaco delle città ?più popolose (nel resto d’Italia ?o superi il 50% o vai al ballottaggio). E con una controriforma delle province ?votata a Ferragosto, che ripristina l’elezione diretta di presidenti e consiglieri. Dunque in Sicilia torna ?il passato, ammesso che sia mai passato. Da qui il passaparola ?dei nostri politici passati.
michele.ainis@uniroma3.it