Gli ultimi dati confermano il Pil in risalita e l’export che vola grazie a imprese iper-specializzate. Eppure non crescono a sufficienza i nuovi posti di lavoro. Il motivo lo spiega questa nostra ricerca esclusiva

Declino. Desertificazione p roduttiva. Fine dell’industria. In questi anni di crisi, per raccontare un’Italia dove più di un giovane su tre è senza lavoro e gli scheletri delle fabbriche abbandonate marchiano le periferie di molte città, sono state usate parole forti. I dati statistici, in effetti, raramente mentono: l’Italia è un Paese più povero di un decennio fa . Gli ultimi numeri dell’Istat dicono che lo scorso giugno i disoccupati restavano 2,8 milioni, più del doppio rispetto all’ultimo momento d’oro vissuto dall’economia nazionale, la primavera del 2007.

Eppure, se si allarga lo sguardo, l’idea di un sistema industriale in disarmo traballa. Dopo il crollo di fine 2008 le esportazioni sono in crescita pressoché costante, e hanno superato i livelli pre-crisi. Anche il Prodotto interno lordo (Pil), l’indicatore che misura la ricchezza generata da un Paese, risale in maniera quasi continua da metà 2013, anche se lo fa lentamente e la ferita della recessione resta aperta.

Questi segnali, però, faticano a tradursi nella crescita dei posti di lavoro che servirebbe. Oggi in Italia gli occupati sfiorano il tetto dei 23 milioni, un livello che è stato superato solo tra fine 2007 e inizio 2008. A dispetto di tutti i guai, dunque, i posti di lavoro sono vicini ai livelli ai livelli dei tempi migliori. Ci sono tanti occupati, ma anche tanti disoccupati. Quali sono le ragioni di questo paradosso, che impedisce a molti di percepire i miglioramenti generali e distrugge la fiducia delle persone?

Per gli economisti le cause sono numerose, come racconta nell’intervista Enrico Giovannini, che è stato presidente dell’Istat e poi ministro del Lavoro nel governo di Enrico Letta. Una di queste è che l’Italia viaggia a più velocità: non esiste solo il divario fra Nord e Sud ma anche specializzazioni o territori che funzionano alla grande, mentre altri sono fermi.

Per raccontare queste differenze, e toccare con mano perché l’occupazione sale così lentamente, L’Espresso ha fatto un esperimento. Abbiamo confrontato il numero dei dipendenti di ogni singola azienda con più di 50 milioni di euro di fatturato, per vedere quanti erano nel 2008 e quanti erano diventati nel 2015. I dati sono elaborati dall’Area Studi di Mediobanca e pubblicati nella graduatoria “Le principali società italiane”; l’edizione 2016 uscirà in autunno.

La prima cosa interessante da notare è che parlare di «desertificazione» è come minimo un’esagerazione. Se si concentra lo sguardo sull’industria, sul commercio e sulla produzione di servizi, le aziende censite che superavano la soglia di 50 milioni di ricavi nel 2008 erano 1.494, mentre sette anni dopo erano salite a 1.620. Anche in termini di occupati, le sorprese non mancano: nell’anno dello scoppio della crisi globale, le aziende italiane con più di mille dipendenti erano 474; nel 2015 erano leggermente cresciute, a quota 493. In totale queste “millennials” davano lavoro a oltre 3,1 milioni di persone, rispetto ai 2,9 milioni del 2008. Va detto che l’incremento è per circa la metà dovuto all’acquisizione dell’americana Chrysler da parte della Fiat. Allo stesso tempo, però, i dati confermano che esistono numerose imprese di taglia media, a controllo privato, che in questi anni sono riuscite a crescere in misura significativa.

In questo interattivo ci siamo concentrati su di loro, segnalando quelle che sono progredite di più e quelle che invece hanno ridotto in maniera drastica il numero dei dipendenti.

Lasciamo per un attimo da parte la testa della classifica, dove c’è il sito di shopping Yoox, e partiamo dai classici: i componenti per auto. In seconda posizione c’è Adler Plastic, sede a Ottaviano, in provincia di Napoli: nel giro di sette anni ha quintuplicato gli addetti. Produce sistemi per il comfort acustico, rivestimenti e pannelli per gli interni, ed è un fornitore di Fiat-Chrysler. Ogni volta che una Maserati Quattroporte raggiunge Portofino o una 500 Abarth sgomma sulla via Emilia, dietro c’è anche Adler, che lavora pure per marchi stranieri come Bentley e Bmw. «Tutto sta nella volontà e nella capacità di aderire a cambiamenti rapidi, sia per tecnologia sia per mercati, che magari all’inizio possono spaventare».

Paolo Scudieri è amministratore del gruppo fondato dal padre, Achille. Parla con la voce pacata di una certa nobilità campana. Adler è il terzo gruppo indipendente al mondo nel suo campo. Ha 63 impianti in 19 paesi; in Italia i dipendenti sono 1.500. Nel 2016 ha inaugurato un nuovo stabilimento ad Airola. Ad Acerra produce tappetini dalla riconversione delle bottiglie in Pet. Tutto in Campania, dove il gruppo rappresenta una delle poche riserve d’ossigeno in un territorio in cui l’industria fatica a respirare: «Calchiamo la palestra più dura. Ma anche il Sud sta cambiando. Inizia ad essere capace di farsi distretto», dice Scudieri.

Da Treviso con furore
Distretto è la parola magica della media impresa italiana. È nella squadra infatti che risiede tuttora l’energia delle “fabbrichette” che spingono, in una nazione restia a crescere. Grazie all’effetto stormo - insieme si arriva più lontano - i medi diventano massa critica. È stata questa una delle leve della crescita di Nice, ad ascoltare il suo fondatore, Lauro Buoro. Nata nel 1993 producendo cancelli automatici, si è spinta in tutto ciò che rende telecomandabili gli edifici, luci intelligenti, tapparelle, allarmi e porte. È rimasta poco fuori la nostra top ten ma dal 2008 ha raddoppiato i dipendenti, diventando “millenial” e salendo poi a 1.510. Ha la testa a Oderzo, in provincia di Treviso, dove il reddito medio è quasi il doppio rispetto alla beneventana Airola. E dove le reti industriali hanno permesso a molti di prosperare. «Avere fornitori avanzati come quelli che abbiamo qui è stato il cuore della nostra crescita: ci ha permesso di concentrare gli investimenti sul prodotto, sul marchio, sulla rete commerciale all’estero, contando invece sulla loro capacità per lo sviluppo industriale», racconta Buoro.

Dei suoi dipendenti, solo 270 sono in Italia. Ma la metà dei fornitori è qui, con oltre 750 persone impiegate nel complesso. D’altronde l’85 per cento dei ricavi arriva ormai dall’estero. «È solo sui mercati internazionali che possiamo crescere. Non possiamo non avere una visione globale, oggi. Con un’identità Made in Italy».

Estero, estero, estero. Gli imprenditori ascoltati, fra quanti hanno scalato la classifica dell’occupazione, hanno tutti di fronte una mappa in cui l’Italia è sempre più piccola. Le bandierine del Risiko puntano per forza oltre-confine. Adler e Nice mostrano, così, uno dei motivi per cui l’occupazione fatica. Con i redditi delle persone schiacciati verso il basso, e i consumi fiacchi, è andato bene chi era capace di esportare o insediarsi all’estero.

Chi nel 2008 se n’è reso conto per tempo, si è unito all’onda. Gli altri sono finiti sott’acqua. Attenzione: l’idea anni Ottanta di delocalizzare per produrre a costi bassi non è superata, ma non è la logica che muove le imprese più dinamiche. In Italia siamo abituati a pensare che l’industria sia in crisi perché si sono ritirati i grandi gruppi, spesso per errori dei manager o dei proprietari, che non hanno saputo affrontare le difficoltà dell’economia globalizzata. Molti si rammaricano che il vuoto lasciato dai big non sia stato quasi mai riempito dagli imprenditori di taglia media. Eppure, se questo non è avvenuto, è perché queste medie imprese sono in equilibrio nelle loro dimensioni. Lo racconta in modo efficace una raccolta di saggi pubblicata di recente, dal titolo “Medie eccellenti”, curata da Luigi Serio (Guerini).

Molti medi imprenditori, bravissimi nel loro campo, non sono diventati dei colossi per varie ragioni. La prima è che la struttura a rete del sistema produttivo permette di ottenere un’efficiente divisione del lavoro, senza dover puntare sulle economie di scala della fabbrica fordista di un tempo.

Una seconda ragione è che molte industrie modello dell’Italia dei territori sono forti su prodotti specifici, nei quali non temono concorrenza. Così, spesso, non hanno l’esigenza o la convenienza di diversificare più di tanto. Ci sono anche altri motivi ma bastano questi per mettere a fuoco una delle conseguenze di questo modello: tranne rare eccezioni, le industrie che hanno permesso all’Italia di tenere botta in questi anni, grazie soprattutto all’export, non diventeranno mai dei colossi. E non ci si può aspettare che siano loro ad assorbire la manodopera estromessa dai grandi gruppi: «Non appare appropriato pretendere dalle medie imprese manifatturiere la germinazione di nuovi grandi imprese», scrive Gabriele Barbaresco, direttore dell’Area studi di Mediobanca, in uno dei saggi del volume “Medie eccellenti”, osservando come l’operare in nicchie di mercato - globali ma necessariamente limitate - sia la chiave del loro successo.

Chi ha paura dei robot
Dal punto di vista dell’occupazione, queste conclusioni danno da pensare. Nella classifica di chi è cresciuto, infatti, spiccano le poche imprese che hanno seguito un modello diverso, puntando sulle acquisizioni. Il caso della Davide Campari e dei suoi aperitivi è noto ma ce ne sono altri. Nona posizione: più 138 per cento di dipendenti, le Industrie De Nora dal 2008 hanno triplicato il fatturato. Ma i ricavi sono quasi per intero dall’estero e su 1.593 persone, in Italia ne sono impiegate poco più di 200, vicino a Milano. «Cresciamo, dobbiamo crescere. In alcune nicchie De Nora è arrivata ad avere il 90 per cento del mercato. È fondamentale avere la visione per entrare in nuove aree, attraverso le acquisizioni o espandendo i nostri prodotti». Paolo Dellachà è un manager chiamato per governare questo processo, come maestro delle strette di mano. Ha dovuto condurre l’acquisizione di alcune attività del colosso giapponese Mitsui: «A Tokyo mi dissero: siamo d’accordo a vendere, ma prima devi convincere i nostri manager che siete gli acquirenti giusti. Ho passato un mese a far notte con loro bevendo sakè, mostrando i nostri piani, spiegando il Dna aziendale. Solo così abbiamo conquistato la loro fiducia». Dopo Mitsui, ce ne sono state altre. Ed è grazie alla ricerca, all’innovazione e alle acquisizioni che l’azienda fondata da Oronzio De Nora da Altamura, ingegnere inventore al Politecnico di Milano (brevettò l’Amuchina nel 1922 per poi cederla), è diventata il piccolo impero di oggi, che va dalla chimica agli elettrodi, al cloro soda, all’idrogeno. «Servono la visione, i manager giusti, e i capitali necessari».

Ambizione. Anche Massimo Candela, amministratore delegato di Fila, la fabbrica delle matite Giotto con cui colorano milioni di bambini, ne parla come di una necessità per sopravvivere. È dai primi anni ’90 che Fila agglomera concorrenti. «È la partita della globalizzazione: non puoi non crescere. Vedo aziende italiane eccezionali che non hanno l’energia per superare la dimensione critica che di fatto le rende frammenti che qualcuno acquisterà», spiega il manager-erede. Fila ha scelto di essere dalla parte di chi traccia il disegno, e non lo copia soltanto. Oggi con i dipendenti passati da 2.477 a 6.036 è fuori d’un soffio dalla nostra top ten. Alla cui cima invece c’è Yoox. Altro piccolo gigante cresciuto a grandi balzi grazie allo shopping societario: attraverso la fusione con Net-a-porter nel 2015 ha raddoppiato il giro d’affari. Un anno prima aveva 885 dipendenti, ora ne ha 3.901, ai quali - specifica il bilancio - vanno aggiunti «stagisti e collaboratori».

Va detto che la velocità dell’economia digitale attrae i capitali dei grandi investitori e costringe i manager ad accelerare le mosse, anche se il tempo a volte porta a fare marcia indietro. Nella classifica di chi è arretrato di più, ad esempio, spicca un nome molto conosciuto: la pasta Barilla. Nel 2008 il gruppo di Parma non aveva ancora finito di digerire l’acquisizione del panificatore tedesco Kamps, un’avventura costosa e sfortunata che si è conclusa rivendendo tutto. Ora il gruppo punta su una crescita per vie interne: nel 2012 ha inaugurato un nuovo stabilimento a Rubbiano, lungo l’autostrada della Cisa, per produrre sughi, che verrà ampliato ulteriormente, con l’assunzione di altre 60 persone.

Se Barilla è un caso particolare, il dimagrimento per cessioni è uno dei fattori che accomuna diverse aziende che hanno diminuito parecchio il numero dei dipendenti. Si è ridotta fortemente, ad esempio, la bergamasca Itema Holding, la società della famiglia Radici che produce macchine tessili: nel 2011 ha ceduto la friulana Savio, uno storico marchio che operava nello stesso settore e contava 1.350 addetti. Ed è stata stravolta anche la Avio, che una volta uscita dal gruppo Fiat ha perso il business dei motori aeronautici, finito agli americani della General Electric. Alla società originaria è rimasto l’altro settore di attività, i sistemi di lancio per l’industria aerospaziale. Il futuro potrebbe però aprire nuove strade: in febbraio Avio è stata quotata in Borsa attraverso uno speciale fondo ad hoc, che ha raccolto alcune decine di milioni che dovrebbero finanziare progetti di crescita. Resta il fatto che Avio, così come l’Italtel post privatizzazione o la società di servizi digitali Buongiorno, ceduta ai giapponesi di Ntt Docomo, non sembrano aver trovato soci italiani in grado di preservarne lo sviluppo, senza passare per pesanti riorganizzazioni o ridimensionamenti.

Se questo è uno dei più radicati problemi dell’industria nazionale, che condanna al nanismo (o meglio, alla “medietà”)gruppi che potrebbero avere altre prospettive, l’altra sfida per i milioni di disoccupati che ogni mattina inviano per mail curriculum e speranze arriva dall’interno. Perché per crescere, le imprese hanno bisogno di diventare efficienti. E per diventare efficienti, oggi, si devono automatizzare.

È lo standard 4.0: bracci meccanici, software veloci, robot capaci di modificare in tempo reale il singolo prodotto sulla base di ogni cliente. «Nella nostra fabbrica di Firenze, da cui arrivano il Pongo, il Das, i Didò, i volumi e la produttività sono cresciuti moltissimo. Il fatturato è raddoppiato. I dipendenti sono rimasti trecento», racconta Candela, di Fila, l’azienda delle matite Giotto. Niente tagli, certo. Ma ad accompagnare la crescita sono stati gli aggiornamenti dei robot, non le tute blu. Se questo sia una minaccia o una possibilità per l’occupazione, dipende in parte da quell’effetto stormo di cui abbiamo parlato: se a produrre sistemi, macchine e manutenzione dell’Industria 4.0 saranno fornitori italiani, come già sta accadendo - alla stessa Fila, ad esempio - allora le occasioni di lavoro cresceranno.

L’altro fattore determinante sarà la formazione del presente-futuro. «Le aziende del nostro settore hanno sistemi all’avanguardia, con una produttività e una qualità tecnologica che ci faranno a breve superare la Germania», racconta ad esempio Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria, l’associazione sotto cui stanno 181 imprese farmaceutiche attive in Italia che dal 2014 hanno continuato ad assumere, arrivando a 64 mila occupati, di cui il 90 per cento laureati. Appunto: «L’automazione non ha frenato l’occupazione, da noi, anzi», dice Scaccabarozzi. Ma ha alzato le specializzazioni richieste.

In Italia però la formazione spesso non funziona. Per non farsi travolgere dalla nuova rivoluzione industriale, è fondamentale darsi da fare. Marco Bentivogli, segretario della Fim – i metalmeccanici della Cisl – ha dedicato proprio a questi temi uno dei capitoli di un libro sul sindacato, dal titolo “Abbiamo rovinato l’Italia?” (editore Castelvecchi). Dice: «È stata proprio la carenza di tecnologie a distruggere il lavoro. Ed è per questo che in tanti accordi che abbiamo firmato negli ultimi anni per rilocalizzare in Italia produzioni che rischiavano di finire all’estero, in Fiat, in Whirlpool, all’Acciaieria di Terni, gli investimenti in tecnologie hanno avuto un ruolo cruciale».

Per Bentivogli, dunque, la rivoluzione digitale non è una minaccia, se la si affronta nel modo giusto: «Credo che sia l’ultima occasione per riportare in Italia tante produzioni». Purtroppo, però, nonostante il governo abbia studiato incentivi specifici, i segnali non sono tutti positivi: «Al Sud, ad esempio, li sta utilizzando soltanto il 7 per cento delle imprese». Quelle maledette differenze, che alla fine frenano l’Italia intera.