Nato ad Aleppo nel 1958, lettore accanito, Abu Musab ?al-Suri nel corso di una militanza trentennale ha redatto decine di libri, manuali, trattati pseudo-accademici. Per lui «Il terrorismo è un dovere religioso. L'assassinio, una tradizione del Profeta»

Qualcuno l’ha definito l’architetto ?del jihad globale. Mustafa Setmariam Nasar, meglio noto come Abu Musab ?al-Suri, è l’inventore del jihad diffuso e molecolare. Nato ad Aleppo nel 1958, una formazione da ingegnere, lettore accanito, nel corso di una militanza trentennale ha redatto decine di libri, manuali, trattati pseudo-accademici. Tra i più importanti c’è un pamphlet del 1991. Sette anni prima che Osama bin Laden rendesse pubblica la dichiarazione di guerra all’Occidente, ?al-Suri dava alle stampe un Comunicato alla nazione islamica per dare vita a una resistenza islamica globale. Un testo seminale in cui invoca una campagna terroristica affidata a reti diffuse, decentralizzate e non gerarchiche. Tesi che avrebbe articolato meglio nell’Appello per la resistenza islamica globale, un volume di 1600 pagine reso pubblico nel gennaio 2005, insieme al suo sito internet, “La biblioteca di Abu Musab al-Suri: la tua guida sulla strada del jihad”.

La strada suggerita è innovativa. E ruota intorno ?a un’idea centrale. Nizam la tanzim: il sistema, non l’organizzazione. Diversamente da altri strateghi jihadisti dell’epoca, il siriano invoca una rivolta popolare, auto-organizzata, priva di strutture gerarchiche, condotta da cellule di militanti collegate in modo lasco, unite solo dalla comune ideologia e dall’obiettivo ultimo: l’instaurazione di un Califfato. «Non ci sono vincoli organizzativi di alcun tipo tra i membri delle Unità di Resistenza Islamica Globale», scrive nel suo Appello, «se non i vincoli di un programma di credenze, un sistema d’azione, un nome comune e un obiettivo condiviso». Più della singola organizzazione (tanzim), conta ?il sistema (nizam). Per lui, perfino ?al-Qaeda «non è un’organizzazione, non ?è un gruppo, e non vogliamo che lo diventi. È una chiamata, un riferimento, un’ideologia». Sono idee che matura nel corso di una militanza irrequieta, in Siria, Egitto, Iraq, Giordania, Spagna ?e Inghilterra. Ma che trovano terreno fertile alla fine degli anni Ottanta ?e nel corso degli anni Novanta. Prima ?a Peshawar, dove diventa «uno dei più stretti confidenti di Osama bin Laden» e l’ombra di Abdallah Azzam, l’inventore dell’internazionalismo jihadista. E poi ?in Afghanistan, dove è consigliere mediatico del leader talebano mullah Omar e istruttore e ideologo in un campo di addestramento militare. Sono cinque, le domande a cui cerca di rispondere per tutta la vita.

«Chi siamo? Cosa vogliamo? Chi sono i nostri nemici? Cosa vogliono? Qual è la natura di questa battaglia?». Risponde a modo suo. Convincendosi che l’errore principale del movimento jihadista sia stato quello di sacrificare la duttilità strategica in favore dell’ortodossia ideologica. Per ovviare, recupera tattiche e strategie dei movimenti maoisti. Propone un jihad ammantato di retorica teologica ma secolarizzato, politico, pragmatico, alieno all’utopismo escatologico. Negli anni Novanta, era una novità. Oggi, l’attualità. Fondata sulla stessa convinzione, ieri come oggi: «Il terrorismo è un dovere religioso. L’assassinio, una tradizione del Profeta», ha ribadito al-Suri prima ?che nell’ottobre 2005 venisse catturato ?in Pakistan, trasferito agli americani ?e consegnato al regime di Assad.