Per rimanere al centro dell’attenzione la tv ha bisogno di una lingua universale. Ecco perché punta su cuochi e padelle

Non c’è niente da fare. Per quanto il termine “storytelling” sia all’impatto respingente, a dir poco, e per quanto già da tempo sia usurato il concetto che sottintende - cioè affabulare il pubblico attraverso racconti densi di emozioni - questo è il punto critico della televisione contemporanea. Archiviata per sempre la convinzione che il mezzo possa recuperare centralità assoluta, persa con la complicità della Rete e della progressiva distanza dai giovani, resta il problema di costruire un dialogo solido e possibilmente duraturo con chi a casa maneggia i telecomandi.

Serve, in altre parole, un tramite. E che sia efficace. Qualcuno o qualcosa in grado di alimentare fascino, desiderio di consumo, aria vitale. Una disponibilità al confronto e all’empatia di cui spesso si stenta a cogliere le tracce. Non saranno certo i reality, a donare alla televisione generalista un cuore caldo e pulsante: quello è il campo del cinismo puro, e del consumo da parte di un pubblico che interagisce via social ma non si sposa per questo a una rete o un progetto. Tantomeno, per le tv a pagamento, può costruire un legame con il telespettatore il circo delle trasmissioni maestrine, che partendo dai tutorial su abiti, trucchi e parrucchi hanno ormai sfruttato ogni sfumatura delle attività umane.

Piuttosto un terreno fertile è quello della finzione, ovvero l’universo delle serie tv , non pensato però come troppo spesso capita in Rai e Mediaset alternando il fumettismo di certe sceneggiature al melodramma della rievocazione di eroi ed epopee che furono, bensì entrando nel merito del presente senza alcuna pretesa di uscirne rassicurati. Un processo utile non soltanto alla comprensione dell’oggi ma anche alla sua graduale digestione. Abbastanza per sedurre chi guarda il piccolo schermo salvaguardandone la dignità. Puntata dopo puntata, personaggio dopo personaggio, argomento dopo argomento. Fino a quando, a volte, sul televedente cala il dubbio che interpretare il vero attraverso il falso sia un poco paradossale, e allora torna in campo per gli addetti ai lavori il quesito iniziale: a chi e che cosa affidarsi, per non finire ai margini dell’attenzione?

Una risposta esatta non c’è. C’è, al massimo, il tentativo di puntare su argomenti che odorino di universale, e anche questo è il motivo per cui non riusciamo ancora a liberarci di cuochi, padelle, tagliatelle, impiattamenti categorici e mugugni di giudici alle prese con allievi più o meno talentuosi. Nella testa di chi gestisce e progetta contenuti catodici, infatti, il cibo insiste a essere una delle soluzioni più pratiche (molto più, ad esempio, dell’informazione, con tutte le sue implicazioni e controindicazioni). Logica applicata sempre e comunque: sia che gli alimenti siano lo spunto per banali game show, sia che trovino in Alessandro Borghese (conduttore su SkyUno di 4 Ristoranti) un fluido mediatore tra spettacolo, cucina e retrogusto sociale e psicologico. Nel vuoto di sogni spendibili, qualcosa di innocuo a cui aggrapparsi.