Celebra mezzo secolo di musica con un album e uno spettacolo che è la sintesi della sua filosofia. Tra sentimenti urlati e predica sociale. E della Capitale dice: "Ormai è la città dei palazzinari"

Eccolo di nuovo, Renato Zero, con la sua presenza che fu icona di trasgressione e con la sua musica che gli ha sempre dato il consenso popolare contro ogni smorfia della critica.
Eccolo che incontra ancora il suo pubblico per celebrare i 50 anni di carriera con un album e uno spettacolo (“Zerosvkij... solo per amore”) che propone la sintesi ragionata della sua filosofia: quell’impasto di sentimenti urlati, di predica sociale e di strazi esistenziali che fino a oggi gli ha fatto vendere 50 milioni di dischi nel mondo. Lo incontriamo alla vigilia del debutto con la curiosità che si deve a un monumento pop e lo scopriamo identico al suo personaggio, deciso a dare anche in un’intervista lo stesso messaggio che ha sempre affidato alla sua straordinaria maschera da palcoscenico.

Questa volta l’impresa che lo impegna è più ardua del solito: un musical con canzoni inedite che lo vede nelle vesti di capostazione in un crocevia di passeggeri che simboleggiano i temi centrali dell’esistenza, impersonati da attori-cantanti, illustrati da balletti e accompagnati da una grande orchestra sinfonica. Non manca il mito rivisitato, con Adamo ed Eva fuggiti dal Paradiso terrestre e l’occhio vigile di Dio che osserva e giudica.

Un progetto ambizioso anche per lei, Renato Zero. Ci vuole coraggio.
«È proprio il coraggio che voglio risvegliare perché mi pare un po’ troppo sedato. Se cominciamo a denunciare e facciamo partire un po’ di pulizia, poi questa si espande a livello planetario».

Davvero sogna di innescare un processo del genere?
«Voglio creare movimenti sismici nell’animo dello spettatore, che dovrà scuotersi per forza. Non le posso dire tutto, perché lo spettacolo ha le sue leggi ed è anche sorpresa, ma sappia che affido il compito ad Adamo ed Eva, catapultati in un’epoca assediata da terrorismo, cambiamenti climatici, eutanasia e tutto il resto».

Immagino che torneranno di corsa nell’Eden.
«Macché, è stato facile corromperli: Eva è tutta presa dalla moda di Dior e Paco Rabanne, Adamo non molla i campionati di calcio. Ma per fortuna c’è Dio e mi piacerà guardare le facce degli spettatori quando sarà lui a intervenire. Avranno tutti un libretto, come nell’opera classica, sul quale potranno riflettere poi a casa».

Se ho capito bene, vuole inchiodare il suo pubblico ai temi della vita e della morte.
«E anche dell’amore, dell’odio, del tempo, che sono a loro volta personaggi costretti a raccontare una verità molto diversa da quella in circolazione. Ma la diranno il giorno del debutto. Fino ad allora non possono parlarne».

Lei però è qui e può farlo attraverso la sua lunga esperienza di uomo e di artista.
«Già, ho 67 anni e posso dire di aver vissuto. La mia vita comincia vicino a piazza del Popolo, in una Roma che non c’è più, fatta di popolo vero, di botteghe di artigiani che erano insieme luoghi di incontro e di lavoro, di palazzi con nobili che custodivano l’arte, avevano servitù italiana e qualche volta ne allevavano generosamente i figli».

Che Roma c’è oggi?
«Quella dei palazzinari, del cemento che ha eliminato anche il ponentino, il venticello che era solo dei romani. Sono stati i palazzinari a far fallire il mio sogno di Fonopoli, la città della musica su cui ho lavorato vent’anni, che avrebbe formato artisti e dato occupazioni a un gran numero di macchinisti, sarti, truccatori. Allora non si parlava ancora di mafia capitale e io ero ingenuo come un cresimando, ma alla fine ho capito».

Che cosa ha capito?
«Che usavano il mio nome per fare una speculazione, dandomi 5 mila metri cubi per l’arte e tirandone su 27 mila per il commerciale. Mi sono opposto e ho perso perché quando non c’è da mettere il biscotto nel cappuccino, scappano tutti».

La politica non l’ha aiutata?
«Ho trattato con tre sindaci, Rutelli, Veltroni, Alemanno. Tutti interessati e tutti senza risultato».

Ora però c’è un’amministrazione tutta nuova. Ha provato a riparlarne con i 5 stelle?
«È troppo tardi per me e forse anche per loro. Guardo Roma senza riconoscerla. E penso a quel politico che magari abita a via Giulia, la strada più bella del mondo, esce di casa, inciampa nel sampietrino, si accorge della buca , e se ne frega. Come se ci dovesse pensare qualcun altro. Ma ormai io vedo la città dalla mia terrazza alla Camilluccia. Dal centro mi hanno sradicato quando ero ancora un ragazzino».

Per andare dove?
«In un casermone di periferia, destinato ai dipendenti della pubblica sicurezza. Mio padre era un poliziotto che mi ha sempre appoggiato, ma in quell’ambiente e in quelle zone la mia vita si è intrecciata per la prima volta con l’odio».

E siamo al secondo tema. Chi la odiava e perché?
«Perché ero particolare, diverso, colorato, truccato. Perché il carnevale spaventa e io glielo mostravo continuamente».

Si è mai chiesto per quale motivo lo faceva e ha continuato a farlo a lungo?
«Era il mio modo di stare al mondo, di far vedere a me stesso e agli altri che si può straripare dai canoni. Del resto non spaventavo soltanto i benpensanti, ma anche i coatti che mi insultavano e ogni tanto mi menavano. Allora io ci parlavo e me li facevo amici. Vuole dei nomi? Alvaro Ciucci, Quinto di Tor Marancia...».

Quando ha dismesso piume e lustrini è andata meglio?
«Beh, i tempi erano cambiati, anche se qualche volta l’odio si era mutato in invidia. Così ho potuto riporre i lustrini nell’animo, insieme a tutte le altre cose che mi hanno formato».

Ce ne dica qualcuna.
«Un nonno materno ucciso di botte dai fascisti, una famiglia comunista nel modo di vivere, ma non nelle tessere, uno zio molto di sinistra che si chiama Mario Tronti. I suoi genitori avevano un banco di odori ai mercati generali, che emanava bellezza e fragranza. Lui oggi è senatore del Pd e ha lavorato tanto per la gente».

Ha anche scritto un libro “Operai e capitale” che negli anni Sessanta ha formato una generazione di sovversivi. Lei l’ha letto?
«No. Ma, quando da ragazzino entravo nella sua stanza, rimanevo incantato dalle pile di libri che arrivavano al soffitto e dai suoi capelli che a trent’anni erano già bianchi. Però la informo che ho anche avuto due zii preti e uno frate».

Se aggiungiamo un padre poliziotto e un’educazione dalle suore, come si poteva pretendere da lei un’identità definita?
«Infatti sono trasversale e contento di esserlo. Posso intendermi al volo con una donna di novant’anni e con un bambino di due».

Ha lasciato nella vaghezza anche la sua vita amorosa. Eppure, come Paolo Poli vestendosi da donna ha raccontato un’altra sessualità, lei è stato il manifesto dell’indistinzione.
«Già, ma ho sempre protetto la mia intimità. Detesto metterla in vetrina come in troppi fanno oggi anche nei social network. E poi ci sono altre forme di amore».

Per esempio?
«L’amore filiale, che mi ha tenuto stretto a mia madre, una romana vera, tipo Anna Magnani, proteggendola fino alla fine dalla sua stessa depressione. L’amore paterno che mi ha fatto adottare Roberto Anselmi, un ragazzo cresciuto in orfanotrofio che lavorava per me da anni. L’amore di un nonno che oggi ho scoperto grazie alle mie due nipoti, figlie di Roberto».

E anche l’amore per i deboli, se è vero che fa spesso improvvise incursioni negli ospedali.
«Sono improvvise perché vorrebbero essere segrete. Al Bambin Gesù o al Santa Lucia, la cosa che mi ferisce di più è la fotografia fatta di nascosto, specie se a scattarla sono gli infermieri. Li rispetto perché anche mia madre era infermiera, ma è umiliante per loro. Comunque sono ricco e trovo anche altri modi di fare beneficenza».

Non ci resta che affrontare il tempo e la morte. Sono due temi che camminano insieme e lei ha ormai l’età per temerli.
«Mi dispiacerà invecchiare soltanto se e quando verranno meno mente e gambe. In barba ai personal training e ai geriatri, sono ancora in pista. In quanto alla morte, da ragazzo ero convinto di morire a 33 anni, come lui. Del resto portavo anch’io la croce dell’incomprensione».

Oggi se ne è liberato?
«Giudichi lei».