Il progetto di Hozan Ibrahim è ambizioso: creare una rete tra tutte le organizzazioni che, nel mezzo di un conflitto sanguinoso, hanno continuato a lavorare per la società civile. Con una certezza: che i cittadini saranno l'unica vera forza in grado di dare il via a una transizione verso la pace

In Europa è difficile avere un’idea chiara di quello che è ed è stata la Siria. Nell’immaginario occidentale è il Paese da cui arrivano i rifugiati, e la loro fuga è diventata il terreno di scontro tra ideologie politiche che nulla hanno a che fare con l’emergenza umanitaria che il paese mediorientale sta vivendo da anni. La Siria divide, fa inasprire i toni del dibattito politico, commuove.

In tutto questo scenario esiste e resiste una società civile silenziosa che non si è data per vinta. Di questa fa parte Hozan Ibrahim, che dal 2013 porta avanti un progetto ambizioso, Citizens for Syria. Il suo scopo primario lo racconta così: “fare una mappatura delle realtà coinvolte in Siria è stato un primo passo dettato dalla necessità di fare chiarezza. Abbiamo sentito il bisogno di creare una rete unica in cui tutte le Organizzazioni Non Governative coinvolte nel conflitto siriano potessero conoscersi e riconoscersi grazie a una piattaforma che le mettesse in collegamento”. Il progetto del team guidato da Ibrahim tenta di collegare la società civile siriana che è in esilio, lontana dal proprio Paese, con le realtà locali e internazionali che si muovono all’interno dei confini della Siria.
“Questo progetto, inizialmente nato per tenere insieme le persone costrette ad abbandonare la propria città per il conflitto o per le minacce ricevute dal regime, si è sviluppato fino a diventare un database completo, e disponibile a tutti, di tutte le Ong (ad oggi 750) che supportano i cittadini siriani, correlato da valutazioni dell’operato sul territorio.”

“Nel 2011 tutti speravamo di ottenere una vita migliore” racconta Hozan Ibrahim, siriano di Qamishliyah – cittadina a nord della Siria, confine con la Turchia, ricordando la primavera araba, quel momento in cui - dalla Tunisia all'Egitto - i movimenti popolari hano pensato di poter mettere in scacco i regimi autoritari. “Fu allora che la mia gente cominciò a esplorare la propria identità e a riconoscersi per la prima volta anche nelle differenze. Proprio quelle differenze che erano state a lungo nascoste o soppresse. Le persone iniziarono a parlare di religione ed etnia come di un’immagine che fa parte di un puzzle più grande e non più come un fattore di divisione.”

Il regime di Bashar al Assad fu duramente colpito dalle proteste popolari. Dopo la caduta dei regimi tunisino ed egiziano, infatti, le proteste si propagarono fino ad interessare il regime ba’athista siriano. Nonostante i due principali centri urbani del Paese, Damasco ed Aleppo, non fossero il fulcro delle proteste (al contrario di quanto avvenuto in Tunisia ed Egitto dove le piazze principali erano quelle delle capitali), il movimento raggiunse comunque una portata tale da mettere in pericolo il regime. Assad scatenò una violenta repressione nei confronti dei manifestanti. Nei piccoli centri come Jisr al-Sughur o Homs, la terza città del Paese, le forze dell’ordine spararono sulle folle causando numerosissimi morti. Il seguito, è cronaca di guerra quotidiana che ancora non si placa.

Non è stato facile il percorso di Hozan Ibrahim.  Incarcerato due volte per aver partecipato ai movimenti della Primavera araba, ha fatto richiesta di asilo politico in Germania e all’inizio del 2012 la sua domanda è stata accettata. Così Hozan ha mosso i primi passi a Berlino. Racconta di aver scelto la capitale tedesca per essere vicino ai centri decisionali internazionali, essendo stato portavoce dei ‘Local Coordination Committees of Syria’, il network che ha raggruppato i gruppi locali che hanno animato le rivolte del 2011. Un’organizzazione definita dal New York Times come “forza fondamentale” per una transizione democratica, perché opponeva il dialogo e la non violenza alla repressione del regime. “Oggi, dopo sei anni e dopo tutta questa violenza, quei giorni sembrano così lontani. Ma le speranze e i sogni non sono morti. Ogni volta che, viaggiando, incontro colleghi ed attivisti recupero la speranza di un tempo. Anche loro mantengono gli stessi sogni e lo stesso coraggio di non arrendersi.”
Citizen for Syria serve proprio a questo, a non arrendersi. E a mostrare al mondo quanto sia operosa quella società civile siriana che fa rete, collabora, lavora sul territorio o a distanza.

Collaboriamo in maniera a-politica. Ciò che sta a cuore a me e al mio gruppo di lavoro è tentare di mettere al centro del discorso politico internazionale il cittadino siriano. Né Assad né l’Isis né altri gruppi armati meritano di essere protagonisti del discorso internazionale. La transizione verso la pace si otterrà solamente coinvolgendo gli attori che sopravvivono a questa guerra spietata tra fazioni politiche. L’uso della forza sarà sempre fallimentare e poco lungimirante”.

Verso questa direzione, silenziosamente, si stanno muovendo le organizzazioni attive in Siria e per la Siria. Per promuovere qualcosa in più del mero aiuto umanitario che, pur nella sua massima utilità, non cambia gli equilibri a lungo termine. Nei paesi limitrofi alla Siria invece, numerose Ong hanno creato posti di lavoro per gli sfollati, affrontano i problemi legati alle documentazioni per le richieste d’asilo, denunciano i soprusi del regime.
“E’ stato difficile riuscire a contare e analizzare tutte le realtà che si muovono in Siria. Nel regno della paura, partecipare al nostro sondaggio è stato molto pericoloso per loro. Eppure lo hanno fatto ed è per questo che il nostro lavoro è il primo nel suo genere.”

Queste organizzazioni formate dalla società civile siriana, secondo i dati che mostra Hozan, stanno al momento dando una mano a 5 milioni di rifugiati. Un auto-organizzazione difficile, ma che è uno schiaffo morale alla diplomazia internazionale che non trova una soluzione al conflitto.
“La Siria non è la fonte del terrorismo ma il paese che in assoluto sta soffrendo di più proprio a causa di questo stigma. Sta combattendo la sua battaglia verso la democrazia, attraversando un momento di estrema violenza. Non banalizzate la nostra realtà.”