Disoccupati. Sfiduciati. Senza rappresentanza politica. Due su tre vivono ancora con i genitori, che per molti fungono da vero e proprio ammortizzatore sociale. Ritratto di una generazione maltrattata

Da quando l’allora ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa coniò il termine, ormai dieci anni fa, non serve aspettare troppo perché periodicamente torni fuori la storia dei bamboccioni. Il punto di partenza della polemica è sempre lo stesso: i giovani che in Italia vivono con i loro genitori anche a una certa età sono molti, molti più che in tutto il resto d’Europa. Secondo gli ultimi dati dell’agenzia europea di statistica (Eurostat) due 18-34enni sue tre contro una media europea che è poco sotto il 50 percento, mentre si arriva anche a uno su tre nel Regno Unito.

Fin qui i fatti: ma quando si tratta di capire le cause la questione diventa più complicata. Che sia perché le condizioni economiche non glielo consentono o perché, come suggerisce lo stereotipo, in fondo sono dei mammoni?

Certo è che per loro in nessun luogo del continente, a parte Grecia e forse Spagna, la situazione del lavoro appare così difficile come in Italia. Intanto siamo la nazione più anziana d’Europa, con la quota più ampia di over 65. Già questo implica contare meno in quanto a rappresentanza politica rispetto a gruppi sociali come i pensionati, per esempio, che riescono a essere più coesi nelle loro richieste (e sono la maggioranza all’interno del principale sindacato italiano, la Cgil). Al contrario, gli under 35 sono politicamente dispersi e tendono anche a votare meno, per cui i loro interessi sono peggio rappresentati.

Anche mettendo da parte la politica, a confrontare il lavoro dei giovani europei il dato che emerge con maggiore forza è l’enorme differenza in termini di chi un impiego ce l’ha e chi no. Non appena si scende al di sotto del Lazio o dell’Abruzzo, per non parlare delle Isole, l’occupazione cala a livelli che non si possono definire greci solo perché il paragone sarebbe scorretto. Ma per la Grecia stessa. In queste regioni lavora meno di un 25-34enne su due, mentre al Centro si supera spesso il 70 percento e nel nord-est anche l’80.

Il tasso di occupazione giovanile in Europa
(cliccate sulla mappa per zoomare)




Se proviamo a guardare nel dettaglio chi sono, queste persone, la questione diventa evidente. Nel 2015 fra i 12,7 milioni di italiani fra 15 e 34 anni una parte significativa studia ancora. Subito dopo arriva il nocciolo del problema. In primo luogo gli 1,4 milioni di disoccupati, poi gli scoraggiati - cioè coloro che sono disposti a lavorare ma hanno smesso di cercare attivamente un impiego - e infine il gruppo di chi né cerca lavoro né è disposto a lavorare. Un gruppo composto, a quanto risulta dai dati Istat, in buona parte da donne e soprattutto nel meridione.

Ma anche fra i 5 milioni di under 35 che un lavoro ce l’hanno, è importante capire esattamente chi fa cosa. Circa un milione sono lavoratori autonomi, mentre pochi di più i lavoratori a termine. I rimanenti, fra tutti, gli unici con contratto a tempo indeterminato che quanto meno consente un certo grado di stabilità.

D’altra parte va riconosciuto che l’uso dei contratti a termine per i giovani italiani non è tanto più frequente rispetto ai loro omologhi europei. In Francia e in Germania, secondo Eurostat, risulta appena più diffuso e lo è assai di più in Spagna. Soltanto nel Regno Unito il lavoro a tempo determinato non ha mai davvero preso piede: ma non c’è da sorprendersi troppo perché lì il lavoro è più flessibile anche per i contratti “normali”.



Lavoro e autonomia sono legati in maniera evidente. Dove i giovani lavorano più di frequente tendono anche a uscire prima dalla famiglia di origine. In queste cose però a volte è difficile capire se viene prima l’uovo o la gallina, e una spiegazione alternativa potrebbe andare nel verso opposto: e cioè che i ragazzi italiani lavorano meno proprio perché restano in famiglia a lungo.



Uno studio del ricercatore Marco Tosi appena pubblicato sulla rivista Demographic Research riassume, fra l’altro, i risultati delle ultime ricerche sul tema. Vivere con i genitori anche in età non più giovanissima, spiega l’autore, è «una strategia per prevenire la povertà, soprattutto nelle classi sociali più povere e nelle famiglie che vivono in zone con elevata disoccupazione».

Questo effetto, continua Tosi, deriva da uno stato sociale debole e incapace di proteggere i più giovani. In più c’è la questione degli affitti, scarsamente disponibili, che «pospone la decisione di lasciare il nido familiare». Poi ci sono i genitori stessi, sui quali i giovani fanno estremo affidamento e che «esercitano un’influenza importante sulle scelte dei figli».

Ma al di là dell’aspetto economico ce n’è anche uno culturale. Difficile negare la fama degli italiani all’estero, in questo senso. E certo esiste una differenza importante: in Italia come in molti altri paesi del sud Europa il momento di lasciare la famiglia d’origine tende a coincidere con il matrimonio. Una convenzione sociale che oggi però cozza contro una società in rapido cambiamento.

In parte perché di lavoro per i giovani continua a non essercene, in parte perché comunque si mette su famiglia sempre più tardi e, al di là dei giudizi personali, questa tradizione pare destinata a rafforzarsi un po’ ovunque, piuttosto che scomparire. Almeno nell’immediato futuro.

Si ringraziano per la collaborazione Michele Boldrin, Andrea Moro, Thomas Manfredi e Marco Albertini per l’aiuto durante il lavoro di ricerca.