Da Mario Chiesa alla maxi tangente Enimont. Dalle mazzette rosse a Berlusconi. Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica. Le confessioni che hanno rivelato i segreti del potere in versione integrale

Dieci verbali che hanno cambiato la storia d’Italia. Sono interrogatori che hanno scoperchiato il sistema della corruzione nella Prima Repubblica. Le confessioni a valanga del primo arrestato. Le tangenti di Bettino Craxi tra piazza Duomo e i conti svizzeri. Le corruzioni con la targa del colosso Fiat. I fondi neri versati dall’Eni ai partiti di governo. La maxi-tangente Enimont. Le mazzette rosse del “compagno G” e la bustarella della Lega. Il brigadiere-eroe che denuncia la Guardia di Finanza. Lo scontro finale tra Silvio Berlusconi e i magistrati di Mani Pulite.

Sono passati 25 anni dall’inizio dell’inchiesta giudiziaria che ha fatto crollare il muro della cosiddetta Tangentopoli. Una corruzione enorme, sistematica, radicata a tutti i livelli, che ha fatto esplodere il nostro debito pubblico e intossicato la politica, l’economia, la pubblica amministrazione, le autorità di controllo.

LEGGI E SCARICA LE CONFESSIONI INTEGRALI

Un sistema che inizia a crollare il 17 febbraio 1992, quando i carabinieri ammanettano Mario Chiesa, presidente socialista di un grande ospizio milanese, il Pio Albergo Trivulzio. L’ingegner Chiesa ha appena intascato una bustarella di 7 milioni di lire (3.500 euro), portati nel suo ufficio da un piccolo imprenditore di Monza, Luca Magni, che lo ha denunciato all’allora semi-sconosciuto pm Antonio Di Pietro.

Quell’arresto, quella piccola tangente, mette in moto una valanga.
[[ge:espresso:attualita:1.295382:article:https://espresso.repubblica.it/attualita/2017/02/14/news/i-25-anni-di-mani-pulite-1.295382]]
In meno di tre anni, fino al dicembre 1994, i magistrati di Mani Pulite raccolgono montagne di prove che portano a 1.233 condanne definitive per corruzione, concussione, finanziamento illecito dei partiti e fondi neri aziendali (falso in bilancio). I processi di Mani Pulite continuano ancora oggi a dividere l’Italia in due partiti trasversali: sostenitori e detrattori, cosiddetti giustizialisti e sedicenti garantisti. Ma un fatto è innegabile: in nessun altro periodo si sono accumulate tante rivelazioni sui segreti del potere. Anzi, vere e proprie confessioni.

La prima è datata 23 marzo 1992. Dopo 35 giorni di cella, Mario Chiesa rompe il silenzio: «Intendo dire la verità». Il pm Di Pietro e il gip Italo Ghitti gli lasciano spiegare tutta la sua carriera politica, il dramma familiare provocato dall’arresto. Quel mattino, a San Vittore, Chiesa non si limita a confessare l’accusa per cui è stato ammanettato, ma vuota il sacco. Ammette di aver intascato la sua prima tangente «nel 1974 circa» e la penultima «due o tre ore prima dell’arresto» per la bustarella di Magni.
[[ge:espressogallery:eol2:31370432:1.82359:mediagallery:https://espresso.repubblica.it/foto/2012/02/09/galleria/mani-pulite-le-nostre-copertine-1.82359]]
A verbale finiscono quasi vent’anni di corruzioni. Chiesa elenca 16 aziende che gli hanno versato denaro per gli appalti. E fa i nomi dei politici con cui ha diviso i soldi, tra cui spiccano gli ultimi due sindaci socialisti di Milano, Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri. Pochi giorni dopo, le confessioni di Chiesa provocano la prima retata di otto imprenditori, che confessano e chiamano in causa altri. È l’inizio di un effetto-domino che fa crollare il sistema. Da un arresto all’altro, da una confessione all’altra, l’inchiesta si allarga a tutte le centrali degli appalti a Milano e in Lombardia: Comune, Provincia, Regione, società contollate dai partiti come Mm (metropolitana), Atm (tram e bus), Sea (aeroporti), Aem (centrali elettriche), e poi sanità, discariche, edilizia. Ovunque gli amministratori di nomina politica manovrano gli appalti a favore di aziende privilegiate, che in cambio versano mazzette ai tesorieri occulti dei partiti, chiamati “collettori”. In breve dai cassieri lombardi si arriva ai tesorieri nazionali. Severino Citaristi, per la Dc, confessa un decennio di finanziamenti illeciti dopo aver ricevuto oltre 70 avvisi di garanzia. Il leader socialista Bettino Craxi, indagato dal 15 dicembre 1992, nega tutto e attacca i magistrati.
[[ge:espresso:foto:1.295418:mediagallery:https://espresso.repubblica.it/foto/2017/02/14/galleria/i-10-verbali-segreti-di-mani-pulite-1.295418]]
Il 7 febbraio 1993 un suo grande amico, Silvano Larini, si costituisce dopo una latitanza all’estero. E confessa. Larini spiega di aver avuto da Craxi (e dal suo padrino politico Antonio Natali) l’incarico di «incassare per il Psi il denaro versato dalle imprese per gli appalti della metropolitana». E precisa: «Dal 1987 fino alla primavera del 1991 ho ricevuto circa 7-8 miliardi di lire, che ho portato negli uffici di Craxi in piazza Duomo 19». Quindi l’ex capo del governo non solo sapeva delle tangenti al Psi, ma ha intascato per anni, personalmente, buste piene di soldi. E a dirlo è un «intimo amico di Craxi», come Larini si autodefinisce.

Le confessioni dell’architetto demoliscono anche l’ascesa al potere del leader socialista nel 1979-80. Larini confessa di aver prestato già allora un suo conto svizzero, chiamato Protezione, allo stesso Craxi e al suo vice, Claudio Martelli, che lo usarono per incassare 7 milioni di dollari: mazzette al Psi pagate dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, il banchiere poi ucciso dalla mafia a Londra (simulando un suicidio). Un segreto negato per oltre un decennio, che era annotato in un dossier ricattatorio sequestrato a Licio Gelli quando fu scoperta la lista degli iscritti alla loggia P2.

Già dal 1992 le corruzioni negli appalti travolgono tutti i partiti di governo (Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli) e, a Milano, anche la corrente migliorista del Pci-Pds, alleata dei socialisti. Tra il 2 e il 25 febbraio 1993, un manager del gruppo Ferruzzi-Montedison, Lorenzo Panzavolta, parla per la prima volta di tangenti (per circa 620 mila euro) destinate anche al Pci nazionale, per gli appalti dell’Enel. Soldi intascati su un conto svizzero dal “compagno G”, Primo Greganti, che subisce la più lunga carcerazione preventiva di tutta Mani Pulite e viene condannato senza mai confessare. Il suo silenzio impedisce di smascherare i beneficiari della corruzione ai vertici del primo partito della sinistra italiana.

Dai bonifici delle tangenti, nel 1993 i magistrati risalgono ai fondi neri delle grandi aziende e arrivano alle maxi-corruzioni. Pierfrancesco Pacini Battaglia è il banchiere che dalla Svizzera ha gestito per anni i conti segreti dell’Eni: almeno 500 miliardi di lire (oltre 250 milioni di euro). Il giudice Italo Ghitti, con una battuta, lo definisce «l’uomo che sta un gradino sotto Dio». Pacini si costituisce il 10 marzo 1993, svela le mediazioni milionarie per il gas algerino e il petrolio libico e confessa di aver fatto arrivare in Italia almeno 50 miliardi di lire: fondi neri dell’Eni, consegnati in contanti ai tesorieri del Psi e in parte minore alla Dc. Quella primavera decine di imprenditori e politici fanno la coda in procura per confessare, in un clima mai più visto di collaborazione con la giustizia per “fine sistema”.
[[ge:espressogallery:eol2:23024392:1.67000:mediagallery:https://espresso.repubblica.it/foto/2010/02/12/galleria/mani-pulite-le-immagini-d-epoca-1.67000]]
Eugenio Cefis, l’ex potentissimo re della chimica, viene convocato il 22 aprile 1993 come semplice testimone sul conto Protezione, di cui giura di non sapere nulla. Riservato ed enigmatico come pochi, accetta però di verbalizzare i segreti dei «finanziamenti dell’Eni ai partiti e a singoli politici», che sostiene di aver «ereditato dal fondatore Enrico Mattei». «I partiti di governo», spiega Cefis, venivano pagati «in automatico con fondi distribuiti dal banchiere Arcaini dell’Italcasse: il grosso spettava alla Dc, poi al Psi, il residuo a Pri, Psdi e Pli». L’Eni versava altri soldi «a singoli politici e a giornali di partito». Anticomunista di ferro, Cefis parla pure di un versamento estero al Pci per sbloccare un affare in Unione Sovietica. Ma pur descrivendo vent’anni di tangenti, non fa neppure un nome dei politici corrotti, sostenendo che non voleva conoscerli perché li «usava nell’interesse dell’Eni», disprezzandoli, «come Mattei».

Due giorni dopo, il 24 aprile 1993, Cesare Romiti consegna ai pm di Mani Pulite un memoriale indirizzato al procuratore capo, Saverio Borrelli: è l’atto di resa della Fiat. Dopo gli arresti di vari dirigenti, l’amministratore delegato della prima industria italiana dichiara che i controlli interni hanno confermato che almeno sei società del gruppo «non hanno potuto resistere» e hanno dovuto accettare «un sistema altamente inquinato»: il memoriale si chiude con i nomi dei manager Fiat pronti a confessare, con l’elenco degli appalti per cui hanno pagato tangenti. Al memoriale è allegato un verbale dei vertici, con Gianni e Umberto Agnelli, che il 13 aprile hanno approvato «la collaborazione con la magistratura». Personalmente Romiti si difende, giurando di aver saputo solo allora delle corruzioni («Sinceramente non immaginavo»), mentre era il direttore finanziario Francesco Paolo Mattioli a gestire i fondi neri. Nel processo, celebrato a Torino, i magistrati salgono un gradino più in alto e condannano anche Romiti per falso in bilancio.

Il consenso di massa per la lotta alla corruzione si spezza per la prima volta a fine luglio, con i suicidi di Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni, e Raoul Gardini, numero uno del gruppo Ferruzzi-Montedison. Il 27 luglio, nel carcere di Opera, il manager Giuseppe Garofano spiega perché Gardini decise di «piegarsi al ricatto del sistema politico» e confessa nei dettagli tutta la maxi-tangente Enimont: oltre 150 miliardi di lire (75 milioni di euro) versati tra il 1990 e le elezioni del 1992 ai cinque partiti di governo e a decine di parlamentari e capicorrente. In cambio, la Montedison è uscita da Enimont incassando dall’Eni 1,4 miliardi di euro. Di Pietro esce dal carcere sfinito. La stessa sera, Cosa nostra fa esplodere tre autobombe, due a Roma e una a Milano, dove la strage di mafia uccide cinque innocenti.

In dicembre, mentre infuriano le polemiche sulle tangenti rosse e l’ex pm Tiziana Parenti si prepara a candidarsi in Forza Italia, viene arrestato il tesoriere della Lega, che dal giugno 1993 governa Milano. Si chiama Alessandro Patelli, confessa di aver intascato 200 milioni di lire (100 mila euro) dalla Montedison, ma giura di non aver detto niente a Umberto Bossi e sostiene che la tangente sarebbe stata rubata da ignoti ladri. Anche il leader della Lega nega di aver saputo, ma conferma di aver chiesto finanziamenti (leciti) ai manager della Montedison e risarcisce alla procura i 200 milioni, raccolti tra gli elettori leghisti. Come Patelli, anche Bossi viene poi condannato per finanziamento illecito.

Dopo aver svelato nel 1992 la corruzione negli appalti e nel 1993 i fondi neri e le maxi-tangenti, come spiega l’attuale procuratore di Milano Francesco Greco, «il 1994 è l’anno in cui scopriamo che anche i controllori sono corrotti». I magistrati hanno già inquisito un giudice civile pagato dall’Eni, Diego Curtò e gli ex vertici della Consob. Il 26 aprile 1994, alle nove di sera, un vicebrigadiere della Guardia di Finanza, Pietro Di Giovanni, si presenta in procura, sconvolto: il suo capopattuglia, Francesco Nanocchio, gli ha dato una busta con due milioni e mezzo di lire: il doppio dello stipendio del vicebrigadiere. Che invece di tacere, intascare, entrare nel giro e arricchirsi con altre mazzette, denuncia il reato. Scoperchiando un sistema di corruzione nelle verifiche fiscali che coinvolge decine di graduati, fino al comandante di Milano, il generale Giuseppe Cerciello. Il 7 luglio, in carcere, Nanocchio confessa le sue mazzette e svela, tra l’altro, che la bustarella data al collega arrivava da Telepiù, un’azienda televisiva controllata da Silvio Berlusconi, diventato capo del governo. Nelle stesse ore altri ufficiali confessano di essersi divisi quattro tangenti Fininvest.

La sera del 13 luglio 1994 il governo Berlusconi vara un decreto, intitolato al ministro Alfredo Biondi, che vieta gli arresti e scarcera i corrotti. La legge, contestata dai pm, è ritirata a furor di popolo. Quindi il manager Fininvest Salvatore Sciascia, arrestato, confessa di aver pagato le tangenti alla Finanza, ma con fondi neri forniti da Paolo Berlusconi all’insaputa di Silvio. I pm non ci credono e scoprono che in giugno un ex finanziere diventato avvocato del Biscione, Massimo Maria Berruti, ha incontrato Silvio a Palazzo Chigi. E subito dopo ha chiamato un suo ex collega corrotto, per farlo tacere, promettendogli «la riconoscenza del gruppo Fininvest». In ottobre parte un’ispezione ministeriale segreta su cento milioni di lire prestati da un assicuratore a Di Pietro, che si dimette. Storditi dall’addio, Borrelli e gli altri pm interrogano Berlusconi il 13 dicembre. nel passaggio cruciale Piercamillo Davigo gli contesta il depistaggio di Berruti.

Il leader di Forza Italia risponde attaccando i pm: «E per una cosa del genere avete indagato il capo del governo? Ma vi rendete conto del danno all’Italia?». Condannato in primo grado, Berlusconi ottiene la prescrizione in appello e una trionfale assoluzione in Cassazione, che condanna Sciascia, Berruti e tutti gli altri. Solo lui poteva non sapere. A Tangentopoli, alla fine, ha stravinto Berlusconi.