Delitti efferati, intrighi internazionali, personaggi estremi. Che partono dalla cronaca e dilagano sul grande e sul piccolo schermo, in libreria. La criminalità organizzata non è mai stata così raccontata

«Plata o plomo», denaro o piombo. Lasciarsi corrompere o morire. Riassumeva così la propria strategia il più noto e ricco trafficante di cocaina di sempre, Pablo Escobar. Una battuta, due parole di cinque lettere pronunciate con l’accento colombiano di Medellín, la città del potentissimo cartello e del suo capo spietato, la capitale planetaria del narcotraffico tra gli anni Settanta e Ottanta. Un commercio talmente florido che le esportazioni di cocaina dalla Colombia superarono quelle di caffè, destinazione principale gli Stati Uniti.

Hanno fatto il giro del mondo queste due parole, «plata o plomo», ripetute all’infinito e rimbalzate sui social, stampate sulle magliette dei ragazzini di mezzo mondo che giocano a fare i duri, danno il titolo a canzoni e album (come quello dei rapper americani Fat Joe & Remy Ma, uscito quest’anno), ispirano linee di abbigliamento, videogiochi. E sono entrate nella leggenda come i boss criminali del narcotraffico. Una leggenda sporca del sangue di decine di migliaia di vittime, molte delle quali ancora senza nome.

Dominano il continente latinoamericano i signori della droga di ieri e di oggi: non solo Escobar, ucciso nel 1993, ma anche il suo erede Joaquin “El Chapo” Guzmán, il capo del cartello messicano di Sinaloa oggi in carcere negli Stati Uniti, nonché il connazionale Santiago Meza López, detto “El Pozolero”, arrestato nel 2009 dopo aver sciolto nell’acido centinaia di vittime dei narcos, da cui ha preso spunto un videogame targato Ubisoft.

Storie vere che si mescolano alla finzione, vite e personaggi estremi che appassionano il pubblico e diventano una miniera d’oro per sceneggiatori, scrittori, editori, produttori cinematografici, sull’onda della dilagante “Narcosmania” collettiva. Documentari, docufiction e libri come “El Chapo - L’ultimo dei narcos”, in uscita in Italia per Newton Compton, biografia-thriller scritta da Malcolm Beth, corrispondente di Newsweek per la guerra dei cartelli della droga. Inchiesta ben documentata, ricca di informazioni riservate e interviste ai soldati e ai trafficanti messicani, compresi i membri del cartello di Guzmán. E ancora, film come “Loving Pablo” dello spagnolo Fernando León de Aranoa (in sala dalla primavera 2018), tratto dal romanzo di Virginia Vallejo “Loving Pablo, hating Escobar”, con Javier Bardem nei panni del signore della droga e Penélope Cruz in quelli della popolare giornalista televisiva che ne fu a lungo l’amante e poi lo denunciò favorendone la cattura.

E, soprattutto, serie tv come “Narcos”, su Netflix, una delle più seguite di sempre, che nella terza stagione ora in onda riparte dalla cattura di Escobar e si concentra sul Cartello di Cali guidato da quattro potenti padrini che si fanno chiamare “i gentiluomini di Cali”, offrono mazzette al governo e tentano azioni violente lontano dalle cronache, con uno stile opposto a quello del boss colombiano.

Un filo rosso attraversa l’Atlantico, contagia l’Europa e l’Italia, dove la criminalità organizzata è ben radicata e offre continui spunti a cinema e tv. A cominciare da “Suburra” (dal 6 ottobre), la prima serie originale Netflix italiana, diretta da Michele Placido, Andrea Molaioli e Giuseppe Capotondi, che porterà in 190 Paesi la storia basata sull’intreccio complesso tra criminalità organizzata, apparati vaticani e italiani. Per tornare poi a “Gomorra”, con la terza stagione in onda dal 17 novembre su Sky Atlantic.

«Dio converta i cuori dei sicari della droga», ha detto di recente Papa Francesco in visita a Medellín, nella terra di Escobar, ricordando le tante vite stroncate, distrutte dalla violenza dei cartelli, esortando i criminali a fare il primo passo verso la resa. Pesano le parole del pontefice, e riportano alla realtà: che i narcos esistono ancora e bisogna spendersi affinché cambino vita. Il pericolo sottinteso nel suo appello è che la cronaca ceda il passo alla leggenda, con il rischio di glorificare i boss.

È sottile la linea di confine: a volte la realtà supera la fiction, come è accaduto solo pochi giorni fa. Carlos Muñoz Portal, 37 anni, assistente di produzione di “Narcos”, è stato assassinato a San Bartolo Actopán, paesino sperduto del Messico, mentre cercava location per la quarta stagione della celebre serie tv, che racconta il feroce cartello di Juárez. Con lui hanno colpito la serie per cui lavorava. E che dava fastidio.

Mentre di recente Juan Pablo Escobar, figlio del capo del cartello di Medellín, ha deciso di scrivere due libri per accendere i riflettori sulla propria storia familiare: “Pablo Escobar - Il padrone del male” (lo stesso titolo della serie tv colombiana su Netflix, “El Patrón del mal”, una sorta di telenovela in stile sudamericano) e “Pablo Escobar - Gli ultimi segreti dei narcos raccontati da suo figlio”, usciti entrambi da Newton Compton. «Molte “verità” su mio padre si conoscono a metà, o non si conoscono affatto», scrive l’autore. «Raccontare la sua storia, perciò, ha comportato molti rischi, poiché andava narrata con enorme senso di responsabilità dato che, purtroppo, gran parte di quanto è stato detto sembra essere perfettamente vero. Nemmeno questo volume, però, rappresenta la verità assoluta». In occasione della messa in onda della seconda stagione di “Narcos”, l’architetto-scrittore ha postato su Facebook un elenco di 28 imprecisioni e errori commessi dagli sceneggiatori della serie, a partire dalla squadra di calcio di cui il narcotrafficante era tifoso. Non l’Atletico Nacional come si vede in tv, ma il Deportivo Independiente Medellín.

Si assiste alla proliferazione di titoli, autori che flirtano con la letteratura, mentre l’impronta spettacolare hollywoodiana è sempre più presente. E allora si pone una questione: fin dove è lecito forzare la verità ai fini narrativi? Con“Kings of crime” Roberto Saviano resta rigorosamente agganciato alla cronaca per raccontare camorra, ’ndrangheta e cartelli della droga messicani.

Nella serie, in onda dal 4 ottobre su Nove (Discovery Italia), lo scrittore racconta le vite di alcuni boss di primo piano attraverso video originali delle forze dell’ordine, atti giudiziari, interviste inedite: Paolo Di Lauro, detto “Ciruzzo ’o milionario”, il boss napoletano alla cui vita Saviano si è ispirato per costruire il personaggio di don Pietro Savastano di “Gomorra - la serie”; il narcotrafficante messicano El Chapo; Antonio Pelle, re fantasma della ’ndrangheta; e infine il collaboratore di giustizia Maurizio Prestieri, ex boss camorrista del rione Monterosa a Secondigliano, per la prima volta davanti alle telecamere per la puntata-intervista finale.

«El Chapo vince perché è un uomo di regole, invece Antonio Pelle è un mistico miliardario che non vuole spendere, non si fa vedere», ha detto Saviano in occasione della presentazione della serie. «E ancora, Paolo Di Lauro, dal giorno in cui decide di diventare narcotrafficante, a 27-28 anni, non esce più di casa. Mai più, perché capisce che è l’unico modo per raggiungere il suo obiettivo. Tutte queste storie sono gravide di dettagli, dettagli che spiazzano. Il nostro scopo è svelare i meccanismi che regolano le organizzazioni criminali».