A 500 anni da Lutero e a un secolo dai bolscevichi, le due grandi spinte per cambiare il mondo sembrano in crisi. Soprattutto in Italia, dove manca qualsiasi progetto
Ottobre addio , di nuovo. La prima volta fu quando nel dicembre 1981 il segretario del partito comunista più grande d’Occidente, Enrico Berlinguer, certificò in tv che dopo il colpo di Stato militare in Polonia il mito della Rivoluzione sovietica aveva esaurito «la spinta propulsiva». «La conferenza stampa televisiva di ieri sera del compagno Berlinguer è stata, nel complesso, fuori dall’ordinario», scrisse “L’Unità” il giorno dopo. E lo era davvero. Ottobre addio, dopo la caduta del Muro e dell’Unione Sovietica dieci anni dopo quella dichiarazione, la rivoluzione è oggetto di studio di storici e di sceneggiatori. I palazzi di inverno da conquistare, nell’ottobre 2017, cambiano di segno: è il nazionalismo e non l’internazionalismo a dettare la rotta, in Catalogna e non solo.
Ottobre è stato anche il mese della Riforma. La grande riforma protestante cominciata con l’affissione sulla porta della chiesa di Wittenberg delle 95 tesi da parte del monaco agostiniano Martin Lutero. Era il 31 ottobre 1517, una data spartiacque per la storia del cristianesimo e per l’Europa occidentale. Era una riforma religiosa, ma provocò una rivoluzione politica.
Il doppio anniversario aiuta a ragionare su riforma e rivoluzione.
Parole che, sganciate dal loro significato originario e dall’evento storico cui sono legate, sono state le bandiere di quella parte che ha considerato la politica come la leva privilegiata per cambiare il mondo. Nel corso del Novecento, il secolo della politica e della sinistra, le due anime, i riformisti e i rivoluzionari, si sono confrontati, affrontati, accusati di deviazione ideologica, di intelligenza con il nemico, di tradimento, il più delle volte si sono massacrati. Nella Russia rivoluzionaria, nella Spagna degli anni Trenta, nell’Italia repubblicana dove per decenni le due fazioni si sono logorate in un’interminabile guerra di posizione che divideva le sinistre, i comunisti dai socialisti, ma anche i partiti al loro interno. Un «riformismo rivoluzionario», ad esempio, chiedeva il leader socialista Riccardo Lombardi alla vigilia della nascita del primo centrosinistra italiano, all’inizio degli anni Sessanta, le radicali riforme di struttura, «un processo che distrugge incessantemente l’equilibrio del sistema e crea una serie di contropoteri». E Pietro Nenni nel congresso del Psi del 1961 assicurava che con l’ingresso dei socialisti al governo non si sarebbe smarrito «il senso di diversità tra democrazia borghese e democrazia socialista». A loro si contrapponeva il riformismo cattolico e laico (Pasquale Saraceno, Ugo La Malfa) che non voleva mettere in discussione il capitalismo, ma chiedeva di correggere i mali storici dell’Italia, le sue storture e le sue ingiustizie: le riforme correttive. Negli stessi anni la socialdemocrazia tedesca abbandonava il marxismo, il collettivismo e accettava l’economia di mercato nel congresso di Bad Godesberg, a cinquecento chilometri da Wittenberg, abbracciando un programma che allora fu definito riformista e che oggi, invece, suonerebbe rivoluzionario.
Ottobre addio, perché alla fine di questa lunga storia non c’è né rivoluzione né riforma, né monaci riformatori né professionisti della rivoluzione. Rivoluzione è il brand impugnato da Emmanuel Macron, che così ha intitolato il suo libro-manifesto. Ma è una rivoluzione senza aggettivi, senza bussole identitarie, né di destra né di sinistra, al più una generica rivoluzione democratica che per svolgersi non ha bisogno di congressi, svolte programmatiche, movimenti collettivi, è puro marketing elettorale, occupazione di uno spazio lasciato incustodito da altri. La riforma non sta messa meglio: indicava un tempo l’allargamento delle possibilità e delle opportunità, ora agli occhi di larghe fasce di elettorato, quello giovanile in particolare, si è capovolta nel suo opposto, un restringimento dei diritti. La sinistra è in crisi in tutta Europa, in tutte le sue versioni: riformista, radicale, post-comunista, vetero-rivoluzionaria e ora anche indipendentista. E le riforme vengono respinte, un problema in più per gli esili riformisti del nostro tempo e del nostro Paese.
In Italia, ha scritto Edmondo Berselli in “L’economia giusta”, «la svolta riformista è avvenuta con trent’anni di ritardo, con lo sconvolgimento dei primi anni Novanta che però si trascinò via il sistema politico» e con sé «l’Italia bianca e poliarchica delle correnti democristiane e il blocco delle cooperative nelle regioni rosse, aiuti pubblici e statalizzazioni» che aveva costruito la stabilità politica e il miracolo economico, la via italiana allo sviluppo e alla democrazia che permetteva ai democristiani, in teoria conservatori, di firmare riforme epocali come quella agraria, e ai comunisti, in teoria rivoluzionari, di far prosperare il modello emiliano.
Il Partito democratico, nato dieci anni fa, il 14 ottobre 2007 con le primarie che nominarono Walter Veltroni come primo segretario, poteva rappresentare il partito nuovo tanto atteso, la conclusione di una lunga storia drammatica fatta di scissioni e di divisioni, l’erede delle grandi culture politiche, i comunisti nati dalla rivoluzione del 1917, i riformisti cattolici, laici e socialisti. L’Ottobre italiano. Anche se già all’epoca c’era chi poneva dubbi sulla solidità del progetto.
«Non credo alla formuletta dei riformismi che si incontrano, perché di riformismo in questo paese ce ne è stato poco per molti decenni: prima è stato bloccato dal conflitto ideologico con il comunismo, poi, nel centrosinistra, è stato travolto dalle logiche di partito. Il riformismo italiano, più che una espressione di grandi e forti tradizioni politiche, è stato un fatto di élites illuminate… in questa forma, come fenomeno culturale, è riemerso dopo il crollo delle ideologie e contribuisce oggi indubbiamente ad offrire utili elementi al Pd. Ma da solo sarebbe poca cosa, certo insufficiente a dare vita ad un partito nuovo. Il Pd ha radici profonde nella storia del Paese o è una invenzione estemporanea e contingente senza radici e perciò senza futuro? Nella storia del Paese vi sono motivi profondi di resistenza, di incompatibilità, rispetto al progetto del Pd?», si chiedeva lo storico Pietro Scoppola, uno dei fondatori del Pd, scomparso dieci anni fa nei giorni della nascita del partito.
«Come si sa, la politica ricomincia di continuo. Occorrerà vedere se il Pd è in grado di ripartire. Se i suoi membri punteranno sulla costruzione paziente di un partito vero. Se affioreranno o no nostalgie per le vecchie identità e per le vecchie appartenenze. Se qualcuno si prenderà l’impegno di delineare una cultura unificante, che al momento non esiste. Se ci sarà la capacità di fare leva tra le contraddizioni implicite della coalizione di Berlusconi. Come si vede, i se sono numerosi e l’elenco potrebbe continuare. Per ora, il Pd assomiglia a un partito ipotetico»,
aggiungeva Edmondo Berselli sul “Mulino”, all’indomani della sconfitta elettorale del 2008.
Alcuni dubbi si sono sciolti, altri sono spuntati al loro posto. Il Pd ha avuto vita difficile sia nella sua versione di partito “a vocazione maggioritaria”, in un’Italia tendenzialmente bipartitica e all’americana, destra contro sinistra, con il Pd partito dei democratici e dei progressisti in grado di contenere al suo interno tutte le culture e le famiglie del centrosinistra, impasto di riformismo e di radicalismo, come lo sognava il suo fondatore Walter Veltroni, sia nel modello messo in campo da Pier Luigi Bersani, il ritorno del Pd a un’alleanza con la sinistra radicale di Nichi Vendola e con il centro moderato di Bruno Tabacci, come avvenuto nelle elezioni del 2013. Ipotesi entrambe sconfitte.
È arrivato poi il terzo tempo del Pd, la leadership rottamatrice di Matteo Renzi, leader estraneo alle divisioni ideologiche del passato, deciso a imporsi come il nuovo, l’anno zero senza fardelli sulle spalle. E con lui l’ipotesi del Pd partito della Nazione, centro unico del sistema politico capace di attrarre nella sua orbita le schegge della galassia berlusconiana che veniva percepita come implosa e in via di estinzione. Il Pd del 40 per cento alle elezioni europee del 2014. Il Pd partito dell’Italicum e del Sì alla riforma della Costituzione. Il partito del Sistema contro il partito dell’Anti-Sistema, il Movimento 5 Stelle. Anche questa ipotesi è finita catastroficamente sconfitta un anno fa, con il voto referendario del 4 dicembre 2016. Renzi come leader è sopravvissuto al disastro, ma non la sua idea di politica, giusta o sbagliata che fosse, e la sua ambizione di intestarsi un ciclo di riforme lungo almeno un decennio. Anche la spinta propulsiva del renzismo si è esaurita, resta la gestione del potere.
In questi dieci anni «una nuova frattura tra “inclusi” ed “esclusi” ha attraversato le società dei paesi industriali e su questo terreno è maturato il consenso raccolto da movimenti antagonisti e populisti. Ed è la sinistra a subirne le conseguenze più dure, con esiti elettorali segnati da forti riduzioni di consenso, spesso proprio nei territori e nelle articolazioni sociali dove più forte era il suo radicamento storico», ha scritto l’ex segretario dei Ds e co-fondatore del Pd Piero Fassino in “Pd davvero” appena pubblicato da la Nave di Teseo.
Nell’ottobre 2017 l’Italia si prepara a una campagna elettorale senza slanci, senza riforme né rivoluzione. I rivoluzionari grillini, infatti, si sono asserragliati nel Palazzo, non hanno più nessuna voglia di uscirne. E dove governano, a Roma ma anche a Torino o a Livorno, incarnano la conservazione (di privilegi, interessi consolidati, spinte corporative) piuttosto che il cambiamento. I riformisti renziani esitano perfino a rivendicare i risultati di quella che fino a poco tempo fa consideravano la legislatura più riformista della storia repubblicana. La riforma della scuola, della pubblica amministrazione, della giustizia, del mercato del lavoro dividono più che unire, non sono riuscite a diventare un modello e una cultura comune, neppure all’interno del Pd. La riforma del sistema politico si è impantanata, si è rimpicciolita dentro l’obiettivo minimo, una modesta riforma elettorale che fotografa i fragili rapporti di forza attuali, il Rosatellum bis, “l’innominabile attuale”, altro che quello del libro di Roberto Calasso, proposta per di più con l’ennesima forzatura parlamentare del voto di fiducia. Le altre frazioni di sinistra vivono una stagione surreale, ben rappresentata dalla parabola esistenziale di Massimo D’Alema, comunista in gioventù, riformista in maturità, rivoluzionario in vecchiaia.
In questa situazione non ci sono più visioni palingenetiche, impossibili in una politica mutata, secolarizzata, con lo sguardo riferito all’ultimo istante, al sondaggio di giornata. E non si vedono neppure più ridotti progetti di buona amministrazione dell’esistente. L’Italia dei rivoluzionari e dei riformisti immaginari si prepara ad andare al voto senza programmi. Facile prevedere chi vincerà: quella parte di società che non ha nessun interesse per il cambiamento della società. La destra, che è sempre la stessa, anche se vestita di nuovo.