Solo il cinema sa rendere affascinanti i disturbi dissociativi ?di identità, aiutando l’intrigo di trame complesse e appagando l’istrionismo dell’attore protagonista, felice interprete ?di più ruoli nello stesso film

«Alle personalità multiple ci credono soltanto gli americani», dicono scherzando gli psichiatri europei ogni volta che appare un nuovo film sugli sdoppiamenti della psiche. Ma poi corrono al cinema, come tutti, sperando in un nuovo “Psyco” alla Hitchcock o almeno in un emulo di “Strade perdute” ?di David Lynch. Perché solo il cinema sa rendere affascinanti i disturbi dissociativi ?di identità, aiutando l’intrigo di trame complesse e appagando l’istrionismo dell’attore protagonista, felice interprete ?di più ruoli nello stesso film.

Nella realtà la faccenda è meno fascinosa. Per cominciare, è chiamata psicosi o schizofrenia, termini tutt’altro che attraenti. Inoltre si manifesta con scissioni monche, parziali e dolorose, che non vanno a formare una struttura compiuta, sia pure patologica. ?

E anche se gli americani, che non rinunciano alle classificazioni diagnostiche, hanno tenuto a lungo il “Disturbo di personalità multipla” nei loro manuali psichiatrici, è noto che questo si manifesta, se si manifesta, in casi di assoluta rarità. Nella relativa normalità della vita di tutti, come suggeriva argutamente lo psicoanalista scozzese Eduard Glover, «l’eccezionale sta nel non essere sdoppiati o multipli». Siamo infatti buoni, cattivi, generosi, egoisti, sensibili, vigliacchi e in tanti altri modi secondo il momento e le circostanze: un condominio di parti diverse che trovano giocoforza una forma di convivenza.

Lo spiega bene Simona Argentieri in un saggio dal titolo “Sosia, doppi e replicanti: peripezie dell’identità dall’inconscio allo schermo” quando scrive che «in ogni individuo accanto all’Io abitano l’Es e il Super Io, e l’Io stesso è inconscio e preconscio, pullulante di parti scisse e rimosse».

Comunque il rapporto tra cinema e psiche viaggia da sempre su altri binari che, tra fantasia e intuizioni cliniche, si sono spesso incontrati, aiutandosi a vicenda. Tanto è vero che all’epoca del muto fu un film, “Lo studente di Praga” diretto dal danese Stellan Rye nel 1913, a ispirare Otto Rank per il suo celebre saggio su “Il doppio”, a cui seguì ?“Il perturbante” di Freud, ancora oggi riferimento obbligato per chi vuole orientarsi su questi temi. Intanto però noi ce ne andiamo al cinema a goderci le 23 personalità raccontate da Night Shyamalan, come ci godemmo le trasformazioni coatte ?di “La donna dai tre volti” che valse un Oscar a Joanne Woodward o le tante mutazioni imitative da falso sé dello “Zelig” di Woody Allen. E non ci faremo condizionare dalle verità scientifiche. Perché al buio, davanti ?a un grande schermo, vale una sola certezza: il cinema è cinema è cinema.