Dall’edilizia all’agricoltura fino al commercio. Doveva essere solo un modo per far emergere il nero, è diventato un odioso sistema di sfruttamento. Il popolo dei buoni-lavoro è cresciuto a dismisura: più 27mila per cento in soli 8 anni. Oltre 145 milioni di tagliandi sono stati venduti nel 2016. Creando una nuova classe sociale

È la parte più scottante dei referendum abrogativi proposti dalla Cgil per «smontare» il jobs act del governo Renzi. Una riforma che ha alimentato una nuova classe operaia con tutele zero, trasformando un mercato del lavoro sempre più precario e deregolamentato. Si chiamano voucheristi e si traduce in cinesizzazione del lavoro.

«Una nuova classe sociale che non ha diritto ad ammalarsi, a curarsi, a maternità o paternità, a ottenere un mutuo per la casa, al congedo matrimoniale, al permesso per accudire i figli malati», ha raccontato Fabrizio Gatti sull’Espresso la scorsa primavera.

Il popolo dei voucher, dei buoni-lavoro, degli italiani pagati con uno strumento inventato per gli impieghi saltuari nell’agricoltura e le ripetizioni del doposcuola che mese dopo mese cresce di numero e si allarga: dal 2008 ad oggi i voucher hanno avuto una crescita straordinaria. Oltre 145 milioni sono stati venduti nel 2016, con un aumento del 26,3 per cento sul 2015.

Una percentuale che diventa mostruosa, più 27mila per cento, se si confrontato i buoni-lavoro venduti nel 2008, 535.985, e quelli venduti nell’ultimo anno. Esattamente 145.367.954 piccoli tagliandi da 10 euro: il costo orario di braccia e menti nell’Italia degli anni dieci.

Lo strumento nato per retribuire quello che viene comunemente chiamato “lavoretto”, cioè il lavoro occasionale, «ha debordato, è fuori controllo», secondo la Cgil: «perché viene utilizzato per retribuire senza contratto chi invece un contratto lo potrebbe avere. Per questo va abolito».

I voucher, sono stati introdotti dal Governo Berlusconi nel 2003 per regolare le attività di tipo accessorio e di natura occasionale.

Dovevano servire soprattutto in agricoltura per remunerare studenti, pensionati, casalinghe durante la vendemmia. I voucher sono entrati in funzione nel 2008 in modo sperimentale. Poi, negli anni, sono stati estesi a sempre più settori: le pulizie domestiche, le lezioni private, il turismo e il commercio sono stati i primi.

Dal 2009 l'uso è stato esteso anche alle amministrazioni pubbliche, edilizia, industria e trasporto. Durante il governo Renzi, grazie al jobs act,
è stato elevato da cinquemila a settemila euro il tetto massimo di voucher percepibili dal lavoratore in un anno, e sono stati inseriti i voucher baby sitter da utilizzare al posto del congedo maternità.

Nel solo 2015 oltre un miliardo di euro di stipendi sono stati pagati con voucher da 10 euro, creando un’antologia del piccolo precariato.

STORIE DI VOUCHER

Ecco una storia esemplare. Settembre 2016: a Bastiglia, piccolo centro nel mantovano, ad un operaio junior di una azienda metalmeccanica capita un incidente: la sua mano è rimasta schiacciata dalla pressa con la quale stava lavorando.

Perde due dita e non ha diritto alla malattia perché il voucher semplicemente non la prevede. Svolgeva lo stesso lavoro degli altri operai ma ha avuto la sfortuna di nascere negli anni novanta e a 21 anni diventare voucherista.

«L’incidente è il risultato, vergognoso e gravissimo, della degenerazione di un intero sistema lavorativo e di regole», osservano Claudio Riso e Sauro Tondelli della Cgil di Modena: «È insopportabile che un grave infortunio capiti a chi lavora con la più assurda e precaria delle forme di lavoro, i buoni-lavoro che dovrebbero essere utilizzati per lavori di tipo occasionale ma che hanno avuto una diffusione talmente enorme da mascherare sempre più il lavoro tipicamente subordinato che dovrebbe avere ben altre tutele e riconoscimento economico».

Le storie del «voucherista» sono storie-fotocopia di ordinaria precarietà. Ecco quelle raccolte dall’associazione diritti del lavoratori dei Cobas: «Sono Andrea e ho 23 anni: mi sono proposto come fattorino e dopo un breve  colloquio sono stato assunto. Non ho mai svolto la mansione di fattorino ma come banconista per servire i clienti».

Giancarmine è laureato in marketing e comunicazione a Venezia e ha accettato un contratto di lavoro a voucher con la promessa di un contratto vero e proprio dopo un primo mese di prova: «Avevo degli orari prestabiliti. Nel fine settimana mi arrivava un plannig di turni settimanali: sempre uguale da 5 a 7 ore al giorno. Arrivato al tetto massimo di duemila euro è stato facile allungare il periodo e sottoscrivere il voucher ad una seconda e terza società di presta nomi. Dopo un periodo di voucher ho avuto un contratto a tempo determinato di 7 mesi e una riduzione di orario seguendo le esigenze di orario dell’azienda. Il resto delle ore a chiamata e ancora pagato con i voucher». 

C. invece è un autista da molti anni nella giungla sempre più selvaggia dell'autotrasporto: calamite, dischi che compaiono e scompaiono e si alternano ai fogli ferie, carte tachigrafiche che si sdoppiano o triplicano, scambi di camion durante i viaggi, paghe da fame e totale disapplicazione del contratto nazionale come delle norme minime in materia di sicurezza e tutela del lavoratore. Per non parlare delle forme di lavoro: sotto cooperativa, tramite agenzia, con la partita Iva. Ma i voucher no, non credeva potessero essere utilizzati per un lavoro che non è sicuramente accessorio.

Invece capita che C. pur di lavorare per uno dei tanti pirati dell'autotrasporto abbia dovuto accettare persino questa forma di pagamento, pure consapevole del fatto che non gli avrebbe garantito alcun diritto: «La paga globale giornaliera di 80 euro, tramite 1-2 voucher al giorno e il restante in nero, era il corrispettivo di un nastro lavorativo mai inferiore alle 15 ore al giorno. Per 6 e a volte 7 giorni alla settimana. I voucher, nonostante venissero erogati con parsimonia, sarebbero finiti abbastanza presto se il padrone, formalmente titolare di una ditta individuale, non mi avesse pagato grazie alla ditta del figlio prima e di un altro prestanome poi. Entrambe ditte individuali di autotrasporto».