Così gli investigatori hanno colpito al cuore le cosche

Quattro mesi, quattro inchieste, decine di arresti. È questo il poker con cui la Dda di Reggio Calabria ha iniziato la scalata al cuore dei clan, svelando il vero volto della ’ndrangheta, Stato nello Stato. Una mano vincente, costruita nel corso di una partita che, solo nell’ultimo anno, ha fatto registrare più di 600 operazioni, sequestri di beni per oltre 2 miliardi di euro, quasi 60 inchieste antimafia arrivate a giudizio, 40 maxiprocessi, più altri 20 portati a sentenza. Un miracolo per un distretto in cui mancano 40 magistrati, mentre tutti i reati sono in aumento.

«Gestire solo l’emergenza è come svuotare il mare con il cucchiaino», dice un investigatore di lungo corso. «Loro mirano a questo». Ecco perché “loro”, gli uomini della ’ndrangheta vera, che non si sporcano le mani in strada, ma governano gli eserciti che la presidiano, adesso hanno paura.

Le inchieste degli ultimi mesi vanno oltre il livello militare, riannodando i fili sciolti lasciati da chi in passato ha scavato a fondo. E non solo a Reggio Calabria. Uno Stato deve avere il proprio ambito operativo e per la ’ndrangheta è il porto di Gioia Tauro. Quello costruito su indicazione del clan Piromalli e su cui la ’ndrangheta, afferma la Cassazione, mantiene un «controllo quasi totalizzante». I dati della Guardia di finanza dei sequestri di cocaina parlano di 932 chili nel 2015 e oltre una tonnellata nel 2016 di cui 700 chili solo a gennaio.

Solo le armi non si trovano mai. O quasi. L’ultima volta è successo nel 2010, quando su indicazione del Mossad, da un container sono saltate fuori 7 tonnellate di esplosivo T4 destinato a Hezbollah. Tra il porto e il suo hinterland, operava invece Giorgio Hugo Balestrieri, oggi sotto processo dopo una lunga latitanza in Nordafrica, ma a suo dire uomo dell’intelligence statunitense. Nella stessa zona, ha costruito le proprie fortune l’ex dirigente Dc Aldo Miccichè, considerato il trait-d’union fra i Piromalli e Marcello Dell’Utri. Da latitante a Caracas Miccichè chiacchierava di affari, voti e scarcerazioni con ministri, sottosegretari, cardinali, banchieri italiani e vaticani. Sempre a Gioia Tauro, ha vissuto ed è stato assassinato il barone Livio Musco, figlio del capo del Sifar, amico dei golpisti del principe nero Junio Valerio Borghese, comandante della Decima Mas e fondatore del movimento neofascista Fronte Nazionale.

Erano frequentazioni comuni agli uomini del clan De Stefano che, secondo l’inchiesta Olimpia, dagli anni Settanta in poi, non hanno esitato a mettere il proprio esercito al servizio del progetto di destabilizzare la Repubblica, che mafie, massoneria ed eversione coltivano da decenni.  

In quel solco sarebbero maturati gli omicidi del procuratore di Cassazione Nino Scopelliti e del presidente delle Ferrovie Ludovico Ligato, ma anche la strage di Gioia Tauro e l’esecuzione dei carabinieri Fava e Garofalo, freddati a pochi chilometri da Reggio Calabria nel ’94, proprio nei mesi in cui esplodevano le bombe in via Palestro a Milano e a via dei Georgofili a Firenze. Fascicoli rimasti aperti, al pari di quello sul mai chiarito suicidio del notaio Pietro Marrapodi, massone e uomo di fiducia della ’ndrangheta, che ai magistrati aveva iniziato a fare i nomi di uomini dello Stato in combutta con i clan, al riparo delle logge.

Dalla procura di Reggio Calabria sono partite inchieste arrivate fino a Milano, a Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega e sottosegretario del ministro Roberto Calderoli, il suo consulente Bruno Mafrici, avvocato senza laurea, e l’ex Nar Lino Guaglianone, titolare della Mgim. È un gruppo che ha lavorato a diversi affari, dal riciclaggio dei fondi neri della Lega alla costruzione di alcune delle municipalizzate reggine, poi sciolte per mafia.