L'ultimo recluso fu portato via nel 1965. Da allora il carcere, in cui durante il fascismo fu imprigionato anche il presidente della Repubblica Sandro Pertini, è stato lasciato all'incuria, alla corrosione e al degrado. Ora un progetto di recupero, voluto dal governo, lo trasformerà in una scuola di formazione europea

Bisogna arrivare lassù, fermarsi nella piazza della Redenzione, guardarsi intorno, leggere le parole che ricordano Sandro Pertini imprigionato dai fascisti tra le mura di questa prigione. Poi camminare lentamente, superare porte ora sfondate e divelte, un tempo robuste e sbarrate, arrivare nel cuore di quello che veniva chiamato la “tomba dei vivi”. Una volta entrati nell’enorme cortile, a forma di ferro di cavallo, bisogna muovere lo sguardo per quasi 360 gradi e guardare i tre piani di celle che, in più di un secolo e mezzo, sono state vissute da migliaia e migliaia di uomini. Ecco, solo in quel preciso momento si avverte la terribile, eccezionale potenza del luogo.

Siamo nell’ex ergastolo dell’isola di Santo Stefano. Una enorme costruzione voluta dai Borboni, progettata dall’architetto Francesco Carpi e terminata nel 1797. Da allora vi sono stati rinchiusi banditi e assassini, uomini innocenti e uomini incatenati per le loro idee: Luigi Settembrini, Luigi Spaventa, Sandro Pertini, Umberto Terracini…

Santo Stefano è a un miglio di mare dall’isola pontina di Ventotene. Due isole, piccole e senza acqua, legate da un destino comune: sono da sempre luoghi di segregazione e sofferenza. Ventotene, che già i romani utilizzarono come luogo di esilio, è stata isola di confino nell’Ottocento e durante il fascismo. Nelle sue stradine e nei grandi cameroni che vennero appositamente costruiti vissero centinaia di oppositori del regime. Lì cominciò a prendere forma la Costituzione della Repubblica. Lì Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni scrissero il manifesto “Per un'Europa libera e unita”, diventato poi il manifesto di Ventotene, una sorta di atto fondativo dell’Europa unita.

Santo Stefano è l’Alcatraz italiana, come la chiamano gli americani. L’ultimo recluso venne portato via nel 1965. Da allora il carcere è stato abbandonato. Alla corrosione del mare. Al naturale degrado di una struttura non più vissuta. Al vandalismo di chi era libero di entrarvi senza controlli. Così oggi le mura sono pericolanti e scrostate. Erbacce e alberi la fanno da padroni. I crolli, grandi e piccoli, sono frequenti. Tutto è pericolante e il carcere è praticamente off limits.

I visitatori, guidati da Salvatore Di Colella, l’uomo di Ventotene che da 20 anni ha cura dell’ergastolo, possono accedere a una piccola fetta del cortile. E lì ascoltare le storie che con passione e precisione storica racconta Salvatore. Come quella del cimitero, il piccolo cimitero dove venivano sepolti gli ergastolani il cui corpo non veniva richiesto da nessuno. Piccole croci aggredite dalla macchia mediterranea che lui, Salvatore, ha più volte ripulito e sistemato. Adesso, una volta all’anno, si arrampica fin lassù una trentina di giovani e meno giovani, mai detenuti insieme a ex detenuti ed ex ergastolani. È il gruppo di Liberi dall’ergastolo. Sistemano le tombe, ordinano i sassi e portano un fiore. Per i morti e per l’abolizione dell’ergastolo.


Da poche settimane Santo Stefano è al centro di un progetto di recupero deciso dal governo di Matteo Renzi. Settanta milioni di euro per restaurare il carcere borbonico. “Qua”, aveva detto il presidente del Consiglio quando, a gennaio, visitò le due isole, “deve sorgere una scuola di formazione europea”. Il Cipe (Comitato per la programmazione economica) ha già stanziato la cifra. Ma il dibattito su cosa fare per ridare vita a questo straordinario complesso è in piedi da anni.

Nel 2010 è iniziato il lavoro che ha poi portato, all’inizio del 2016, alla nascita di una “Associazione per Santo Stefano in Ventotene”. Un lavoro minuzioso di analisi dei progetti esistenti, di raccolta di nuove idee e proposte che ha trovato il suo primo confronto pubblico in un convegno che si è tenuto a Ventotene l’11 giugno. Guido Garavoglia, già funzionario della Camera dei deputati e del Quirinale e animatore-presidente dell’associazione, spiega che sono almeno quattro gli obiettivi possibili per dare un futuro al carcere e al complesso Santo Stefano – Ventotene. «Bisogna ovviamente partire dal recupero architettonico degli edifici e dalla creazione delle infrastrutture, prima fra tutte un approdo efficiente. Per fare cosa? Innanzitutto un centro di ricerche e documentazione sui temi dell’integrazione europea dove i ricercatori possano vivere e studiare. Uno spazio museale non potrà mancare. Per ricostruire la storia del carcere, raccontarne i protagonisti, costruire una solida memoria di quello che è stato un ergastolo come questo. Museo direttamente collegato al progetto di recupero dell’archivio del carcere che a breve dovrebbe tornare sull’isola. Infine, più staccata da queste tematiche ma altrettanto importante, c’è l’idea di creare un osservatorio sulle biodiversità delle piccole isole del Mediterraneo».

Adesso inizia la parte più difficile. Quella di passare dagli stanziamenti e dai progetti ai fatti concreti. Perché il carcere non ce la fa più. L’ultimo a crollare è stato il balcone della casa del direttore.