La morte di Alessandro Gallelli, 21 anni appena compiuti, è un mistero che dura da quattro anni. Le modalità troppo macchinose, come provato dalle foto che pubblichiamo. Il sospetto che sia stato vittima di punizioni per il suo stato mentale. E quella frase detta alla madre: “Mi trattano male, qui è un inferno, qui ho conosciuto la vera malvagità". Secondo il giudice civile è impossibile credere alla versione del carcere

Appeso alle sbarre della cella con il collo infilato in un cappio ricavato dalla manica di una felpa fatta passare, meticolosamente, attraverso i piccoli fori di una finestra a griglia. Un suicidio insolito e laboriosissimo che sarebbe stato pensato e messo in pratica in meno di 30 minuti. E una frase, pronunciata poco prima di morire, che oggi assume contorni inquietanti: “Mi trattano male, qui è un inferno, qui ho conosciuto la vera malvagità. Vi prego, se è un gioco, adesso basta”.

La morte di Alessandro Gallelli, 21 anni appena compiuti, è un mistero che dura da quattro anni.

Il 18 febbraio 2012, dopo 4 mesi di detenzione, Alessandro fu trovato cadavere in una cella singola del Centro di osservazione neuro psichiatrica del carcere milanese di San Vittore. Impiccato. Un “suicidio senza ombre”, secondo la direzione del carcere e l’autorità giudiziaria che dispose l’autopsia del cadavere e aprì d’ufficio un’inchiesta. “Una vicenda poco chiara”, invece, secondo il Tribunale Civile di Milano, che proprio di recente ha condannato in primo grado il Ministero della Giustizia a risarcire la famiglia del ragazzo.

Secondo il giudice civile, infatti, che per scrivere la sentenza si è basato anche sulla perizia effettuata sulla cella dove avvenne la morte, appare “poco chiaro” come il detenuto (sottoposto a sorveglianza a vista) potesse essere riuscito a portare a termine “l’ingegnoso e laborioso suicidio” in meno di mezz’ora, nell’intervallo fra un controllo e l’altro da parte dell’agente della penitenziaria. In quella cella, insomma, scrive il giudice, il 21enne avrebbe dovuto essere controllato 24 ore su 24. E non fu fatto.

Chi non ha mai creduto alla versione ufficiale dell’istituto di pena sono i genitori di Alessandro. Che oggi proprio alla luce della sentenza civile lanciano un appello – raccolto dal garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano Alessandra Naldi e quindi trasmesso attraverso un esposto al garante nazionale Mauro Palma – nel quale chiedono che siano fatte nuove indagini. E che ci sia dunque un processo penale a stabilire i fatti e le responsabilità di chi, quel giorno, avrebbe dovuto vigilare su un ragazzo mentre era sotto custodia dello Stato e che invece fu riconsegnato cadavere.

DALLE “BRAVATE” ALL’ISOLAMENTO

A far finire Alessandro in manette è stata, soprattutto, una lunga serie di bravate unite a un consumo abituale di cannabis e a una personalità borderline difficile da gestire. Nell’ottobre 2011 ecco la classica goccia che fa traboccare il vaso: alla fermata dell’autobus palpeggia il sedere di una ragazza di 16 anni. Per il codice penale non esistono sfumature: finisce in carcere con l’accusa di violenza sessuale. I capi di imputazione si sommano ad altri reati e così, nonostante incensurato, gli vengono negati i domiciliari.
Il ventenne, originario del Legnanese e calciatore dilettante, viene portato da subito al secondo piano del sesto raggio di San Vittore, nella sezione dove vengono rinchiusi i cosiddetti “detenuti protetti”, ovvero quelli che hanno commesso reati cosiddetti “infamanti” (pedofili o violentatori) ma anche transessuali, omosessuali, ex appartenenti alle forze dell’ordine. Uno stato di isolamento che, in teoria, dovrebbe proteggere i prigionieri ritenuti più a rischio dalle violenze da parte degli altri detenuti. Ma che, in pratica, acuisce il senso di alienazione di chi si trova lì.

Alessandro comincia a dare in escandescenze. Rifiuta di prendere gli psicofarmaci che gli vengono prescritti dai medici. Un giorno, per protesta, allaga la cella. Viene trasferito al Centro di Osservazione Neuro Psichiatrica, il Conp. Dopo poco tempo finisce nella cella numero 5 in fondo al corridoio. Da solo.

APPESO ALLE SBARRE

Una sera la madre del ragazzo guarda in tv un documentario sulle morti in carcere. E ha un tremendo presagio. “Avevo capito subito che quello non era il posto adatto a lui, che doveva andarsi a curare in una comunità o che comunque non doveva rimanere da solo in quella cella – racconta oggi Mirella Maggioni a l’Espresso - ho provato a spiegarlo alla direzione del carcere ma non c’è stato verso. Mi hanno risposto: suo figlio ha dei problemi psichiatrici e deve rimanere lì”.

Quella di Alessandro è appunto l’ultima cella in fondo al corridoio. Lontana da tutto e da tutti. Nel centro della stanza c’è un letto, senza lenzuola. L’unica finestra è sbarrata da una robusta griglia e dalle sbarre esterne. Alessandro – conferma la documentazione del carcere - è sottoposto a sorveglianza a vista per scongiurare atti di autolesionismo. Non viene specificato, però, se l’osservazione debba essere “h 24”. E così ogni trenta minuti un agente della penitenziaria lo controlla dalla finestra e annota sul registro cosa sta facendo. Il suo stato mentale, intanto, peggiora. Per Alessandro l’isolamento è vissuto come una discesa agli inferi. Durante gli incontri settimanali con i genitori il 21enne appare spesso assente e lontano. Altre volte piange e si dispera. “Mi trattano male, qui è un inferno – confida alla madre – io ho conosciuto la malvagità, qui c’è la vera malvagità”.
Per i medici del carcere – che continuano a prescrivergli psicofarmaci che lui si rifiuta di assumere – il ragazzo è “persecutorio e polemico”.

La mattina del 18 febbraio 2012 – documentano i registri del carcere - la giornata di Alessandro comincia con la solita routine. “Il detenuto fa colazione”, annotano gli agenti. Nel pomeriggio, davanti a San Vittore, si svolge una manifestazione di “No Tav”. C’è molto rumore, qualcuno fa scoppiare petardi. Alle 16.30 l’agente di turno passa davanti alla cella di Alessandro. “Il detenuto sta fumando”, scrive. Alle 17, la nota è dello stesso tenore: “Il detenuto sta riposando”.
Trenta minuti più tardi Alessandro viene ritrovato appeso alle sbarre con il collo infilato in un cappio.


INQUIETANTI SOSPETTI

“Cosa ci faceva un ragazzo giovanissimo e in attesa di giudizio, con problemi di salute mentale, in una cella che in passato era usata come cella di contenzione e probabilmente anche di punizione? Perché quel reparto del quale annunciano la chiusura da mesi è ancora oggi attivo?” si chiede Alessandra Naldi, garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Milano. ?Il sospetto del garante, condiviso anche dall’associazione Antigone che si sta occupando del caso, è infatti che nella cella numero 5 – già oggetto di un’ispezione nel 2008 da parte del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa – fosse usata per “contenere” i prigionieri più difficili da gestire. ?“L’ultimo sopralluogo al Conp risale a qualche giorno fa – racconta ancora la Naldi – oggi in quella cella fissato al pavimento c’è un letto di contenzione fatto in ferro, dotato di robuste cinghie di cuoio, con le quali vengono legate le persone che danno in escandescenze. Ogni volta che le vedo, quelle cinghie sono abbondantemente sporche di sangue”.

Del fatto che Alessandro in carcere potesse essere stato vittima di punizioni, per via dei sui problemi psichici così difficili da gestire, sono assolutamente convinti i genitori del ragazzo. Che riferiscono, in particolare, un episodio: “Dopo la morte di Ale, ci sono stati riconsegnati i suoi vestiti in un sacchetto. Erano completamente bagnati. Quando abbiamo chiesto il perché, alcuni operatori ci hanno spiegato che in carcere, in inverno, a volte i detenuti vengono bagnati per punizione con un getto di acqua gelata”.

E alcune ombre sull’operato del carcere sono messe nero su bianco – appunto – anche dalla sentenza del Tribunale Civile che ha condannato il ministero della Giustizia a risarcire la famiglia Gallelli.

“La cella è dotata di una finestra protetta da una robusta retina e poggia su un’inferriata costituita da spesse sbarre di ferro – si legge nella perizia commissionata dalla X sezione civile del Tribunale di Milano – appare lapalissiano l’interrogativo di come il detenuto sia riuscito a far passare attraverso piccole aperture delimitate dai fili di ferro una felpa e poi agganciarla alle sbarre per poi farla rientrare dentro e infine usarla come cappio. Sembrerebbe un lavoro inauditamente lungo che richiede un oggetto contundente per divaricare o rompere i fori della retina di ferro. E sicuramente un soggetto intento a occuparsi di questo lavoro non potrebbe passare inosservato alla guardia carceraria, tenendo conto che si trova in SAV (sorveglianza a vista). Come avrebbe potuto il detenuto in poco meno di mezz’ora praticare un ingegnoso aggancio di una felpa e farla ripassare meticolosamente attraverso una retina del genere?”.

Di sicuro, però, a stabilire che la morte di Alessandro è stata un “tragico, imprevedibile e fulmineo suicidio” – sposando in pieno la versione ufficiale del carcere milanese - è già stata un’inchiesta aperta d’ufficio dalla Procura di Milano e condotta dal pubblico ministero Giovanni Polizzi. Che, basandosi sulle testimonianze e sui referti dell’autopsia, chiese l’archiviazione del caso. Sul corpo del ragazzo non furono trovati segni da poter far pensare a un scenario diverso dal suicidio.

“Gallelli si trovava in quella cella perché aveva manifestato seri problemi psichiatrici ed era stata riscontrata la possibilità che potesse essere pericoloso verso se stesso e verso gli altri detenuti”, è la ricostruzione di San Vittore contenuta negli atti.

“L’ENNESIMO ERRORE”

Ai genitori di Alessandro, però, quelle parole non bastano. La loro è una tenace ricerca della verità che non ha mai avuto pretese di giustizialismo a tutti i costi: “Noi non vogliamo trovare per forza un colpevole – prosegue la donna – però abbiamo il diritto di capire cosa sia davvero successo, ci deve essere un processo a stabilire se qualcuno è responsabile di quanto è accaduto lì dentro. Altrimenti esisterà sempre e solo una versione dei fatti: la loro”.

Mirella ricorda, in un tremendo flashback, il giorno in cui – solo dopo molta insistenza – le è stato mostrato il cadavere del figlio: “All’obitorio il corpo era sotto sequestro. Non potevamo neanche fargli un’ultima carezza. La sua bocca era spalancata, come se all’ultimo momento avesse provato a respirare con tutte le sue forze. Abbiamo chiesto se, per favore, potessero chiudere la bocca. Perché guardarlo era impressionante. E l’espressione di Ale si è tramutata in un sorriso”.

“Mio figlio non doveva essere abbandonato in quella cella come fosse un animale, era soltanto un ragazzo che aveva bisogno di aiuto – conclude la donna – per lo Stato, invece, Alessandro è soltanto l’ennesimo errore da dimenticare”.