Una serie di iniziative ripercorre gli eventi del movimento che cambiò la storia dell’arte e del costume. A partire ?dalla mostra dedicata al suo fondatore, Tristan Tzara

Dada, in francese è il cavalluccio di legno. In russo significa sì. Ma è anche il primo balbettio di un neonato. Non sappiamo perché Tristan Tzara, un rumeno ebreo di famiglia agiata e di nome Samuel Rosenstock, a Zurigo nel 1916 lanciò un movimento artistico di multiformi espressioni con questo enigmatico titolo, assieme a Hugo Ball e a Jean Arp a cui si aggiunsero presto altri.

Tzara aveva solo vent’anni, vestiva di nero come Baudelaire e portava un monocolo démodé che ne segna la sua fisionomia in tanti ritratti. Era un dandy e un bohémien allo stesso tempo.

Il Musée d’Art Modern di Strasburgo ha inaugurato le celebrazioni del movimento con la mostra “Tzara approssimativo”, dove si sono indagate tutte le pieghe di questo straordinario personaggio che nel 1920 - spenta l’onda zurighese - approda a Parigi dove ha molti amici come Breton, Aragon e Picabia, futuri promotori del Surrealismo, che nasce da Dada come Eva dalla costola di Adamo.


A Zurigo, al momento del lancio di Dada, Hugo Ball fittò un locale a un primo piano di Spiegelgasse 1, a Niederdorf un quartiere malfamato della opulenta città dei banchieri, e aprirono il Cabaret Voltaire destinato alle loro performance. Nome scelto non certo a caso perché l’Europa era insanguinata da quel massacro che fu la Grande Guerra. Nella serata inaugurale dissero al pubblico che non avrebbero visto belle gambe né ascoltato musica fru-fru di consumo: «Sono contro tutti i sistemi, il più accettabile è quello di non averne nessuno», grida al pubblico Tzara. Poi lessero testi di Apollinaire, di Voltaire, dello stesso Tzara che era per vocazione un poeta e un letterato. Si ascoltò musica d’avanguardia, anzi “rumorismo” seconda la loro stramba definizione; e quella sala - che intendeva essere “un luogo di cultura”- sarebbe divenuta la culla dell’ordine=disordine, dell’asserzione “io=non io”, in una girandola di nonsense che manda in bestia i borghesi zurighesi.

Facendo musica a loro modo fino a notte fonda, scatenarono le ire dei vicini. Si racconta che Lenin e compagni, non sopportarono quel frastuono privo di senso che li distoglieva dal loro lavoro di rivoluzionari bolscevichi. Ma anche Dada fu una rivoluzione nell’arte del tempo che esplose come una bomba, proprio come quelle che piovevano nelle trincee di Verdun dalla grande Berta. Nella compagine c’erano anche donne - già questo un gesto eversivo - quali Sophie Taeuber l’unica svizzera del gruppo, poi madame Arp, e la bellissima Emmy Hennings attrice e danzatrice, poi Frau Ball. Entrambi i Ball furono legati da intima amicizia con Hermann Hesse e Hugo ne scrisse la prima e bellissima biografia.

Tzara scrisse il manifesto del movimento e nel 1917 nacque la rivista omonima: l’assemblaggio dei corpi tipografici eterogenei era lo specchio grafico dell’innovazione dei testi letterari ispirati al “nonsense” e allo sperimentalismo più spinto: il “rumorismo” delle loro scatenate serate al Cabaret Voltaire non era solo tale perché si ascoltava anche musica di Strawinskij, Varèse, Debussy alternati alla lettura dei testi letterari. Ma sarcasmo e sberleffo erano il pepe urticante di Dada e andavano a braccetto con il rifiuto irridente di qualsivoglia codice linguistico precedente.

Dadaglobe Reconstrected” è il titolo della mostra a cura di Adrian Sudhalter, che occupa una sola sala della Kunsthaus (fino a 1 maggio e successivamente al MoMA di New York): sala piena come un uovo dove - con un lavoro certosino - viene esposto il progetto che aveva concepito Tzara e finanziato Francis Picabia: spedirono 50 lettere ai loro amici o interlocutori che ritenevano sensibili a questa loro crociata dell’anti-arte. Scrissero ad Aragon, Breton, Cocteau, a Marcel e Suzanne Duchamp, a Max Ernst, Man Ray, Brancusi, Grosz, Heartfield, Schwitters, Van Doesburg, Stella e via di seguito e chiesero loro di inviare una foto «riconoscibile, ma anche trattata» a loro modo.

Alcuni sono dei classici ritratti come quello di Varèse, altri elaborazione come quello di Picabia con scritte sul volto. Questa massa enorme di lettere, foto, disegni, manoscritti, poesie giunsero a Tzara che ne fece un menabò molto dettagliato con grafia piccolissima ma non riuscì mai a farlo divenire un libro come era suo proposito.

Gli appunti minuti e il menabò sono serviti ai curatori per realizzare il sogno del poeta rumeno: materiali dispersi per l’intero mondo dopo la morte di Tzara, che ora vediamo con stupore, pazienza e passione nelle vetrine o ai muri della sala nel museo zurighese. Il catalogo, edito da Scheidegger & Spiess, con impeccabile qualità svizzera, è una “ricostruzione” di quel che non è mai stato. Molti materiali sono noti perché già comparsi nelle diverse monografie dei corrispondenti - il caso più celebre è quello di Duchamp - ma altri sono una novità assoluta e tra questi anche le risposte di alcuni italiani come Julius Evola, Egidio Bacchi, Gino Cantarelli.

Recensire questa mostra è alla lettera impossibile e una “contraddictio in verbis” delle intenzioni dei fondatori. Ora si potrà rifare la storia del dadaismo su basi del tutto nuove ed è una storia affascinante per cento e uno implicazioni che essa comporta e per valutare gli effetti dirompenti ben oltre la morte dei protagonisti. Tzara scrive su una carta da lettera in cui campeggia la scritta “MoUvEmEnT DADA”, su due righe con carattere scatolare.

Ogni risposta rivela la scrittura e la personalità del corrispondente (elegantissima come una dama inglese quella di Grosz) e persino la busta, Ernst scrive a macchina o a mano, Varèse invia una poesia, Duchamp disegna in punta di matita un autoritratto mentre fuma, elegantissimo. In catalogo saggi dedicati all’approdo e alla fortuna del gruppo a Parigi e a New York: l’antologia ricca di testi letterati si apre con uno sketch ironico tra Breton e Soupault con dedica a Éluard.

Zurigo è un crepitare di iniziative dedicate a Dada, alcune delle quali hanno già avuto un largo successo: come “Dada Universal”, a cura di Juri Steiner e Stefan Zweifel, che si è appena conclusa al Landesmuseum - ricchissima collezione sull’arte della Svizzera. In “Dada Universal” sono state raccolte molte icone della straordinaria diffusione che ebbe Dada nel mondo, con gli oggetti più stranianti come divise militari, le maschere che i poveri soldati in trincea portavano per salvarsi dai gas lanciati dal nemico, le protesi dei feriti che avevano perso un braccio o una gamba. E il dodo, uccello dada per eccellenza. Un’icona molto amata dai dadaisti (perfetta espressione del “nonsense”, inventato da madre natura perché è un uccello che non sapeva volare), così come la celebre “Fountain” (1917) di Marcel Duchamp - un orinatoio a muro - che l’artista inviò alla mostra “Armory Show” di New York: un pezzo dissacrante che ha rivoluzionato l’arte del Novecento.

Si capisce assai bene in queste mostre che Dada - partendo dal nulla o quasi - ha inventato tutto quanto è poi germogliato nei movimenti più sovversivi in Europa e negli Stati Uniti: dove nel secondo dopoguerra nacque l’arte concettuale e il vasto movimento del New-Dada.