Gli studenti che soffrono di disturbi dell'apprendimento sono il 3-4 per cento, più di 186mila casi in Italia. Spesso sono considerati poco attenti. A volte stupidi. Ma non è vero. Anzi. Anche Einstein soffriva di Dsa
Una sentenza del
Tar di Bologna ha riammesso un allievo del liceo Sabin alla classe successiva, ribaltando la bocciatura dello scorso giugno. Lo
studente ha una diagnosi di dislessia e il tribunale ha considerato insufficienti i percorsi didattici attivati dall’istituto per la sua carriera scolastica.
Ci sono infatti alunni che leggono lentamente, scrivono male, hanno difficoltà nel calcolo o nel passaggio dal linguaggio parlato a quello scritto. E spesso si tratta di dislessia, disgrafia, discalculia e disortografia: i
disturbi specifici dell’apprendimento (
Dsa).
Il primo caso di Dsa sembra risalire addirittura al II secolo d.C. mentre il primo a introdurre l’espressione “learning disability” è stato l’americano
Samuel Kirk, nel 1963. Quarantasette anni dopo, l’Italia si è pronunciata con la legge 170 per tutelare il diritto allo studio e definire l’utilizzo di un piano didattico personalizzato.
Nel
report di novembre sull’
integrazione scolastica degli alunni con disabilità, il Miur ha già contato
186.803 ragazzi con Dsa, il 2,1 per cento. Ma siamo lontani dalla cifra reale: «I dati vanno elevati almeno al 3,5 e forse anche al 4 per cento», dice
Paolo Curatolo, professore di Neuropsichiatria infantile a Roma Tor Vergata.
Maria Luisa Gorno Tempini, ordinario di Neurologia a San Francisco, spiega a “l’Espresso” che «attraverso una serie di processamenti della risonanza magnetica è possibile verificare un Dsa ma anche individuare altre capacità con le quali aiutare il soggetto a valorizzare i propri talenti o a risolvere certe lentezze cognitive.
Capita spesso che una differenza nello sviluppo nell’
area sinistra del cervello (che regola il linguaggio, ndr) si accompagni a una connettività più forte in quella destra. Ad esempio, molti dislessici hanno grandi capacità nel
problem solving o spiccate abilità visuo-spaziali».
Gli studi hanno evidenziato che il 60-70 per cento dei casi di Dsa presenta esperienze familiari. A volte i
genitori scoprono di soffrirne subito dopo averla riscontrata nei figli. Per ricevere una diagnosi nel nostro Paese bisogna però aspettare la fine della seconda elementare per i disturbi nello scrivere e la terza per le abilità di calcolo.
Secondo
Umberto Barillari, presidente del corso di laurea in Logopedia alla Seconda Università di Napoli, «dopo la diagnosi, lo strumento più valido è la riabilitazione logopedica: in questo modo si rispettano i tempi di apprendimento».
Uno dei problemi maggiori è l’equivoco a cui, date le difficoltà di studio, gli affetti da Dsa vanno incontro. Dice
Franco Botticelli, presidente dell’
Associazione Italiana Dislessia, che «ancora oggi gran parte degli italiani confonde i Dsa con stupidità e svogliatezza.
Senza una
diagnosi, il soggetto si chiude in se stesso, matura difficoltà relazioni e può arrivare alla depressione. E poi la diagnosi va aggiornata col tempo. Purtroppo in Italia ci sono solo
tre strutture che si occupano degli adulti, quindi i test d’ingresso all’università, i concorsi pubblici e i quiz per la patente di guida possono rappresentare un problema importante».
Nel frattempo, l’Ospedale Bambino Gesù di Roma e la Fondazione Santa Lucia hanno sottoposto un campione di giovani dislessici alla Stimolazione Transcranica a Corrente Diretta, non invasiva, con un miglioramento del 60% che fan ben sperare per il prossimo futuro.
Dislessici, insomma,
non vuol dire affatto stupidi. Anzi, come evidenzia Gorno Tempini, «nella Silicon Valley dei grandi innovatori, i disturbi specifici dell’apprendimento riguardano il 30 per cento della popolazione». Del resto, hanno sofferto di Dsa anche
Einstein,
Disney,
Spielberg e
Pennac...