La spending review si è rivelata una missione impossibile. Perché la scelta non è tecnica, ?ma politica. E nessuno vuole rinunciare al consenso

Incantati dalla volgare disputa sul pancione di Giorgia Meloni, i professionisti della politica romana fingono di non vedere la madre di tutti i guai, la valanga di debiti che opprime il Campidoglio: 13,5 miliardi di euro, 27mila miliardi delle vecchie lire, più o meno sei mesi di gettito Imu e Tasi. Un macigno. Per capirci, Roma da sola pesa un quinto di un altro debito spaventoso, quello delle Regioni: 63 miliardi, mille euro per ogni italiano. Tanto poi tutto finisce nel buco nero del debito pubblico, che nessuno riesce a chiudere, premier o commissario alla spending review che sia. Mission impossible.

Dopo mesi di viso dell’arme, Matteo Renzi è riuscito a ottenere dagli occhiuti censori di Bruxelles un po’ di flessibilità in più per quest’anno e per il 2017 uno sconticino, decimali, sui parametri (deficit, debito e Pil) che definiscono lo stato di salute dei soci del club. Una mano consistente, poi, l’ha appena data Mario Draghi con misure che sembrano fatte apposta per la povera Italietta: denaro a costo zero, quindi meno interessi sul debito, e premi alle banche che finanziano consumi e imprese, cioè una mano alla crescita, leva decisiva per limare squilibri di bilancio. Ma subito dopo saranno dolori. L’Italia si è impegnata al pareggio dei conti per il 2018 (niente deficit) e a tagliare di nove punti il rapporto debito-Pil. Se così non sarà, scatteranno le cosiddette clausole di salvaguardia, multe salate inflitte dalla Ue a chi sgarra, pari a 36 miliardi di euro. Sarebbe meglio evitare…

Il fatto è - appare chiaro anche ai pupi - che i partner europei non si fidano dell’Italia: troppe promesse non mantenute e occasioni perse. Del resto, quando il club della moneta unica è nato, il drastico calo del costo del denaro da due cifre a una è stato preso non come l’occasione d’oro per ridurre i debiti, ma la scusa matematica per farne altri. Poi è arrivata l’altra grande chance di un euro più competitivo e del petrolio a metà prezzo, ma la musica non è cambiata. Anzi. Con l’aggravante, agli occhi dei partner europei, che le banche italiane sono oggi imbottite di titoli del debito pubblico per quasi 400 miliardi.

Spulciando tra i conti nazionali 2011-15, Alessandro Penati ha estratto alcune cifre illuminanti. In cinque anni il debito è diminuito appena dello 0,85 per cento, ma la metà del vantaggio si deve in realtà al ridotto peso degli interessi; intanto però il reddito nazionale è rimasto uguale a quello del 2011; la spesa per stipendi e acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione è stata tagliata di 3 miliardi appena sui 317 mila spesi cinque anni fa; e il welfare costa oggi 28,5 miliardi di euro in più, quanto l’aumento delle tasse: vale a dire che il maggior prelievo fiscale è servito solo a compensare sanità e previdenza. Fermi a cinque anni fa.

Già, ma perché è così difficile tagliare? Qualche anno fa un gruppo di tecnici incaricati di studiare i meccanismi della finanza pubblica indicò alcuni mali cronici, il primo dei quali era - scrissero - l’eccessiva frammentazione dello Stato (ministeri, Comuni e Regioni) che rendeva arduo anche solo individuare le voci da attaccare. Da allora le cose non sono cambiate di molto. E prova ne sia l’ineluttabile destino dei commissari incaricati di capire dove ridurre la spesa (spending review): pochi mesi di impegno e poi l’immancabile lancio della spugna. Da parte di uomini come Giarda, Bondi, Canzio, Cottarelli, Perotti…

Secondo, manca del tutto quel lavoro di indagine e studio preventivo - utile a capire, appunto, dove abbattere l’accetta - avviato da Tommaso Padoa Schioppa. Ma la sua stagione al Tesoro è stata troppo breve e nessuno dopo ne ha ripreso lo spirito. Terzo, alle scelte tecniche deve seguire una decisione politica, sennò sono solo chiacchiere. Una prova? Le distorsioni stranote che nessuno ha il coraggio di aggredire. Qualche esempio? Quasi 15 miliardi se ne vanno ogni anno per pagare pensioni di invalidità troppo spesso indebite: in tutto sono quasi tre milioni, una ogni 20 italiani, la Repubblica degli invalidi; le maggiori sacche di inefficienza, gli sprechi più incredibili allignano nel Sud, ma nessuno sembra avere la voglia di metterci mano; almeno un italiano su tre si assicura esenzioni e facilitazioni - dal posto all’asilo all’assegnazione di alloggi, dal ticket sanitario alle tasse universitarie - truccando i dati, o più semplicemente evadendo il fisco. Già, l’evasione fiscale…

Twitter @bmanfellotto