Meno fondi e molti più morti, mai così tanti da almeno un decennio. Dalla Siria allo Yemen, dalla Libia alla Nigeria, il 2015 è stato una mattanza. E con i donatori che tirano la cinghia, le bonifiche rallentano. A Santiago del Cile ne discutono i delegati di 162 Paesi, guidati dall’Italia. Aspettando di conoscere le intenzioni della presidenza Trump

«I morti aumentano mentre i fondi per le bonifiche e l’assistenza alle vittime sono sempre di meno» denuncia Jeff Abramson, coordinatore dell’ultimo rapporto di International Campaign to Ban Landimines (Icbl), l’alleanza globale di organizzazioni non governative Premio Nobel per la pace.

A l’Espresso risponde da Santiago del Cile, dove in questi giorni i delegati di 162 Paesi stanno provando a capire cosa non funziona. Perché il rapporto parla chiaro: le mine antiuomo uccidono sempre di più. Tra il 2014 e il 2015 il numero dei morti e dei feriti causati da questo tipo di ordigni è aumentato del 75 per cento, raggiungendo, secondo i dati disponibili alla Icbl, 6461. Una mattanza mai vista negli ultimi dieci anni, indiscriminata come sempre: le vittime sono civili nel 78 per cento dei casi, bambini quattro volte su dieci.

Questi dati sono al centro del XV Meeting (a Santiago) degli Stati membri del Trattato di Ottawa, l’accordo che dal 1999 vieta l’impiego, lo stoccaggio, la produzione e il trasferimento delle mine. Uno strumento ratificato da 162 Paesi ma non da Stati Uniti, Russia, Cina, India e Israele. Schiacciato, anno dopo anno, da conflitti e geopolitica. Per capirlo basta spiegare la mappa. «L’aumento improvviso del numero dei morti è dovuto ai conflitti armati in Libia, Siria, Ucraina e Yemen, ma pesa anche un cambiamento nelle tecniche di guerra», sottolinea Abramson: «Soprattutto in Medio Oriente è sempre più diffuso l’uso delle mine e degli "Ied", gli ordigni improvvisati».

La responsabilità ricade anzitutto sugli Stati produttori, a cominciare da India, Myanmar, Pakistan e Corea del Sud, spesso fonte di forniture illecite ad “attori non-statali”: macellai all’opera in almeno dieci Paesi, dall’Afghanistan alla Colombia, dall’Iraq alla Nigeria, l’ultimo fronte aperto dagli islamisti di Boko Haram.

Poi c’è il crollo dei finanziamenti: un ostacolo insormontabile perché, come promesso, nel 2025 il mondo sia davvero libero dalle mine. I dati, riferiti ai 35 governi donatori, non lasciano spazio ad ambiguità. I fondi sono calati per il terzo anno di fila e per la prima volta dal 2005 siamo sotto la soglia dei 400 milioni di dollari. Per l’esattezza a 340 milioni, circa 77 in meno rispetto al 2014. Un crollo del 25 per cento, con riflessi inevitabili sulle bonifiche dei territori infestati da mine, "Ied" o bombe a grappolo. «In un anno  – annotano gli esperti –l’estensione delle aree decontaminate si è ridotta da 201 a 171 chilometri quadrati principalmente a causa della forte riduzione dei fondi disponibili».

E adesso? Avanti con l’assistenza alle vittime, le bonifiche e la distruzione degli arsenali. A Santiago lo ha chiesto anche la delegazione dell’Italia, che dal 1° gennaio 2016 in sede Onu coordina i Paesi donatori come presidente del Mine Action Support Group. «L’appello a far fronte all’emergenza umanitaria si è affiancato negli ultimi due anni a una crescita del 35 per cento dei fondi nazionali», conferma a l’Espresso Giuseppe Schiavello, responsabile della Campagna italiana contro le mine. Convinto che, però, il cammino da percorrere resta lungo. Tanto per capire: solo 26 Paesi hanno mantenuto gli impegni di bonifica assunti con la firma del Trattato; e appena quattro, Algeria, Cile, Repubblica Democratica del Congo ed Ecuador, potrebbero farcela in tempi relativamente brevi. Senza contare chi gli impegni non li rispetta affatto, come l’Ucraina, e le incognite. Legate solo in parte alle incertezze dell’economia globalizzata.

Prendete gli Stati Uniti, non firmatari del Trattato ma comunque primi donatori con due miliardi e 600 milioni trasferiti tra il 1993 e il 2015 a 95 Paesi. A Santiago hanno annunciato altri 40 milioni per le bonifiche in Colombia. Ma come si muoverà Donald Trump? È presto per capire in che misura si concretizzeranno le minacce nazionaliste e isolazioniste. Di certo Barack Obama è stato il primo presidente degli Stati Uniti a visitare il Laos, devastato dai bombardamenti che dovevano isolare il Vietnam comunista. Il 7 settembre scorso ad accogliere l’ospite americano c’era anche Thoummy Silamphan, un signore con gli occhiali e la protesi al braccio, sorpreso bambino da una mina mentre raccoglieva germogli di bambù. Quarant’anni e due milioni di tonnellate di bombe dopo, più di quelle cadute sulla Germania e il Giappone durante la Seconda guerra mondiale, non ha sentito pronunciare scuse. Almeno, però, una promessa: «Il dovere morale di aiutare».