Negli otto anni della presidenza, i democrat americani sono stati per i democratici italiani qualcosa di più di un raggruppamento parente oltreoceano. Sono stati il punto di riferimento, l’approdo, la patria ideale, l’unico possibile negli anni in cui in Europa la socialdemocrazia affondava

No, we can’t. No, ora non si può. No, non possiamo più.«Go home!». Tutti a casa. L’invito del consigliere di Hillary Clinton John Podesta nella notte dello psicodramma, rivolto alla folla dei militanti in attesa di salutare la candidata sconfitta mentre si consumava il momento più drammatico - la certezza matematica dell’elezione di Donald Trump alla Casa bianca - più che l’8 novembre, l’8 settembre del Partito democratico americano, è suonato in modo sinistro anche in Europa e in Italia.

Negli otto anni della presidenza di Barack Obama, dal 2008 al 2016, i democrat americani sono stati per i democratici italiani qualcosa di più di un raggruppamento parente oltreoceano. Sono stati il punto di riferimento, l’approdo, la patria ideale, l’unico possibile negli anni in cui in Europa la socialdemocrazia affondava. E poi democratico è il nome del partito, come in America, di esportazione sono le primarie, e la vita del Pd, fondato nell’ottobre 2007 da Walter Veltroni, coincide quasi interamente con la presidenza di Obama: il giovane senatore afro-americano era già in competizione per vincere le primarie interne al suo partito (contro Hillary Clinton), e da lì a qualche mese avrebbe cominciato la sua scalata a sorpresa, da outsider contro la formidabile e rodata macchina elettorale del partito a presidente scelto con il voto popolare. Nel 2008, anno elettorale per gli Usa e per l’Italia, Veltroni lo aveva scelto come nume tutelare. Nello sforzo di presentare il Pd come la versione italiana dell’obamismo. La festa del partito? Democratic Party. La tv del partito? YouDem. Il movimento giovanile?

Doveva inizialmente chiamarsi Young Democrats. La sede? Il loft. Perfino il palco del comizio alla grande manifestazione del 25 ottobre 2008 al Circo Massimo ricalcava in pieno l’originale afro-americano: una lunga pedana in mezzo alla folla, per dare la sensazione “calda” del leader che è uno di noi, si alza in piedi e parla. E la sera dell’elezione di Obama il segretario aveva organizzato un incontro pubblico nell’attesa del lieto annuncio.
«Abbiamo due slogan pronti per i prossimi mesi», ironizzava Massimo D’Alema, non ancora rottamato. «Se vinciamo le elezioni, yes we can!, si può fare. Se perdiamo, yes week-end!: fine settimana liberi, avremo un sacco di tempo a disposizione». Veltroni perse, poi si dimise. E nel Pd e nel centro-sinistra cominciò la caccia mediatica all’Obama italiano, senza badare troppo ai dettagli: l’Obama di Terlizzi (il presidente della regione Puglia Nichi Vendola: aveva vinto due volte le primarie), l’Obama di Sanluri (Renato Soru, candidato alla presidenza della regione Sardegna contro Silvio Berlusconi, sconfitto), l’Obama di Firenze (il giovane presidente della provincia toscana fortemente desideroso di candidarsi alla guida della sua città...).

I successori di Veltroni alla leadership del Pd, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, si sono divisi su tutto, tranne che su Obama e sul suo ruolo. Per il Pd e i suoi leader i democratici americani sono stati l’unica radice spendibile e popolare negli anni delle grandi coalizioni in Germania, con l’Spd a fare da massa di manovra di Angela Merkel, il dissolversi del socialismo francese, greco, spagnolo, il tramonto del blairismo in Inghilterra. Con Renzi l’identificazione tra il Partito democratico americano e quello italiano si è accentuata, con l’obiettivo di far coincidere anche l’immagine dei rispettivi leader, Obama e Renzi. Come ha dimostrato la cena di Stato alla Casa Bianca tra il presidente uscente e il premier italiano che ora rischia di restare nella memoria come l’ultimo momento felice dei democratici americani al governo per un lungo periodo.

«La vittoria dell’outsider Obama alle primarie del 2008 è stata imprevedibile, così come nel 2014 la nomina di un primo ministro di 39 anni nel paese più gerontocratico d’Europa», ha scritto uno dei consiglieri economici di Renzi, Marco Simoni (“Il Foglio”, 3 novembre).

La teorizzazione di una “quarta via”, esportata dagli Usa di Obama. Non più la contrapposizione tra Stato e mercato, e neppure la nebulosa terza via di cui si parlò negli anni Novanta in Europa, ma una politica di sgravi fiscali e investimenti pubblici, «una rinnovata fiducia nello Stato, i cui limiti vengono posti dalla contemporanea fiducia nel mercato». L’idea degli Usa in crescita felice contrapposta a quella dell’Europa in austerità perenne. «E se fosse l’Italia la vera alternativa al modello Brexit-Grillo-Trump?», si chiedeva una settimana fa Simoni.

Dalle elezioni americane è arrivata a questa domanda una risposta inquietante per il governo italiano. Non basta il lavoro, se il reddito si è assottigliato a livelli impressionanti. Non basta presentare una realtà tutta positiva del Paese se poi i fatti si incaricano di smentire lo storytelling tutto ottimista dei governanti. Renzi sente crescere l’ansia per l’esito del referendum sulla Costituzione, il cui risultato positivo appare sempre più in bilico, quasi un atto di fede. Ora che termina l’era Obama e la coppia Bill-Hillary Clinton è definitivamente consegnata alla pensione, Renzi e il Pd sono più soli a livello internazionale e anche interno. Senza ideologie, modelli di riferimento, radici, leadership.

La seconda lezione americana che arriva dall’elezione di Donald Trump è la prevalenza dell’outsider: vince il candidato fuori dagli schemi, anomalo, che in una situazione eccezionale riesce a farsi largo sul palcoscenico. In Italia è stata la chiave della discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994: come Trump, il Cavaliere era tutt’altro che estraneo all’establishment politico e economico dell’epoca, ma fu abilissimo a non apparire mai come tale di fronte agli elettori.

Oggi tutta la stampa internazionale gli riconosce di essere stato un pioniere del genere tycoon in politica, ma Berlusconi vive nell’imbarazzo: rifiuta di essere troppo accostato al nuovo presidente e al tempo stesso si gode lo spettacolo di un uomo che venti anni dopo ripropone gli stessi stili, il suo stesso linguaggio politicamente scorretto, il comportamento anti-istituzionale. In più, è pressato dalla Lega di Matteo Salvini, irresistibilmente tentato dal proclamarsi la versione italiana del trumpismo, così come a lungo il Pd è stato quella italiana dell’obamismo: su Facebook ci sono ancora le sue foto con il neo-presidente (che però non si ricorda di lui), il capo della Lega si presenta come il seguace italiano della ricetta Trump, l’unica adeguata, qualunque essa sia, anche a destra. E chiede al centro-destra italiano di fare «come Trump», cioè programma radicale, parole d’ordine tranchant, via tutto quello che sa di poteri forti, mettersi in scia con i nuovi padroni del mondo e con i loro epigoni europei, a partire da Marine Le Pen. Un colpo micidiale a Stefano Parisi e alla trasformazione in senso moderato dell’ex Forza Italia.

Ancora più evidente la somiglianza tra l’operazione Trump e il successo di Beppe Grillo e di Gian Roberto Casaleggio nel 2013 con il Movimento 5 Stelle: nessuna alleanza con partiti pre-esistenti, capacità di raccogliere il vento della protesta, occupazione di quello spazio che si fonda sulla rabbia e sul rancore degli elettori, sulla loro disperazione, che è un sentimento destinato a non deludere, piuttosto che sulla loro speranza, sottoposta invece al rischio della frustrazione. Come ha scritto il New York Times (9 novembre) facendo mea culpa per aver sbagliato ogni previsione sul vincitore: «Per i seguaci di Trump le istituzioni sono marce, il sistema economico è marcio, i media sono marci. Beh, qualcosa di marcio c’è di sicuro».

C’è, infine, la posizione di outsider sperimentata da Renzi tra il 2012 e il 2014: scalare partendo da un’amministrazione locale i vertici del partito e del governo mostrandosi come l’unico in grado di saper intercettare le domande del popolo, offrire risposte semplificatorie e populiste, ma restando il vertice del governo, interlocutore indispensabile di tutti i poteri, al centro del crocevia di equilibri e interessi. È l’esercizio che il premier sta provando anche in queste settimane di campagna elettorale per il referendum.

Sembrava un’impresa alla portata, con i Sì in rimonta. L’elezione di Trump ora sta galvanizzando l’ala destra del fronte del No, da Salvini a Giorgia Meloni a Renato Brunetta e ha depresso gli esponenti del fronte del Sì. Il fronte del No al referendum punta a fare il tris il 4 dicembre: dopo la Brexit di giugno e la november surprise degli Stati Uniti con l’elezione di Trump, la sconfitta del governo italiano sul cambiamento della Costituzione. Da mesi il premier Renzi oscilla tra la spinta ad atteggiarsi a ricostruttore del Paese, pronto a sferrare l’attacco all’Europa su terremoto e migranti per raggiungere l’obiettivo, e l’istinto del rottamatore, con la campagna sul taglio dei senatori e della loro indennità, la sfida sempre più violenta alla minoranza interna del Pd e a una parte dell’ambiente intellettuale, utilissimo per dissimulare distacco dai tradizionali cenacoli culturali che facevano parte della geografia del centrosinistra italiano. Di certo Renzi non ci tiene a farsi incasellare nella categoria di leader di uno spezzone europeo di un partito democratico oggi in grave crisi in Usa.

Fin dalla notte dell’8 novembre, quando è apparso chiaro che non ci sarebbe stata nessuna vittoria a valanga per la Clinton, prima che i risultati trascinassero Trump alla Casa Bianca, la prima preoccupazione di Renzi è stata quella di studiare l’onda Trump, calcolarne la portata, intuire quali mosse fare per arginarla. In prima battuta, significava togliersi rapidamente di dosso l’immagine del tifoso deluso di Hillary Clinton. E così il premier italiano è stato tra i primi a congratularsi in pubblico con il neo-presidente americano, mentre in altre capitali, ad esempio a Parigi, si discuteva cosa fare. C’è chi elenca, con ottimismo, i vantaggi indiretti che potrebbero arrivare al governo Renzi dalla vittoria di Trump. In politica estera, la possibilità di mantenere un buon rapporto con la Russia di Vladimir Putin senza incorrere nelle ire di Washington, come sarebbe successo con la presidenza Clinton. E lo scompiglio in Europa che continuerà, favorendo l’opera demolitrice del premier italiano.

Sul piano interno, la vittoria di Trump è un’altra picconata che si abbatte sulla legge elettorale Italicum: con un ciclo elettorale così imprevedibile è troppo rischioso tenersi una legge maggioritaria che assicura al vincitore una maggioranza schiacciante di seggi. Meglio le alleanze, le coalizioni, il ritorno di una legge proporzionale, per impedire che un giorno non lontano un Trump italiano con un voto in più conquisti tutta la posta in gioco. Gli Usa possono permetterselo, l’Italia no. E forse non può permetterselo neppure Renzi con il suo Pd. Da ora sarà obbligato a cercare un’identità diversa da quella dell’obamismo sconfitto. Che non può essere il trumpismo oggi egemone oltre Atlantico.