Un Dalì in cucina. Un De Chirico in corridoio. Un Ligabue dietro la porta. Sono alcune delle centinaia di opere d'arte che insieme a immobili, auto, magazzini facevano parte dell'impero di Gioacchino Campolo, che per anni ha gestito il gioco e il riciclaggio per conto dei clan. Ora la gran parte dei beni è passata allo Stato. Diventando simbolo di un riscatto possibile

Un tempo collezionava opere d’arte, auto di lusso, appartamenti, magazzini e sale giochi. Oggi si deve accontentare di processi, condanne e confische. Non più tardi di una decina di anni fa a Reggio Calabria lo conoscevano come “il re dei videopoker” e da monarca regnava su eserciti di dipendenti che gestivano le sue sale giochi. Oggi è un anziano, malato e insofferente, che nonostante gli acciacchi si ostina a presenziare a tutte le udienze dei processi in cui è imputato.

Come per tutti i reali, la caduta di Gioacchino Campolo è stata rovinosa. Dal 2009, anno in cui la Dda lo ha spedito in carcere come 'lavatrice' preferita dei soldi sporchi dei clan e gli ha sequestrato beni per circa 300milioni di euro, la parabola discendente dell’imprenditore non si è mai fermata. E del suo impero, costruito presentandosi alle aste giudiziarie con valigette piene di miliardi 'cash' per acquistare case e appartamenti, gli è rimasto solo il ricordo. Anzi, per certi versi neanche quello. Da accumulatore seriale, incapace di cestinare persino le vecchie chiavi dei 260 immobili di cui cambiava regolarmente le serrature, neanche lui sembra ricordare tutto quello che nel tempo ha acquistato.

Per questo, quando gli hanno chiesto conto di 17 quadri d’autore trovati appesi alle pareti di un appartamento romano, relegato al rango di mero pied à terre, ha potuto solo fare spallucce. Ha avuto la medesima reazione quando lo hanno interpellato a proposito delle ottantasette riproduzioni fotografiche di gran pregio dei bozzetti originali di Amedeo Modigliani. Neanche ricordava di averle, dice. E nessun ricordo conserva delle due statue di fine Seicento e del fonte battesimale con tanto di putti alati e tabernacolo, scovati per caso dagli amministratori giudiziari in una stanza segreta all’interno di uno dei suoi tanti magazzini.

È bastato spostare un armadio, scavare un po’ fra scatoloni, casse e materiale vario affastellato alla rinfusa e dalla spazzatura sono saltate fuori due statue – un uomo e una donna, con fattezze da popolani seicenteschi - e un gruppo marmoreo che forse qualche chiesa rimpiange. Smontate in vari pezzi, accumulavano polvere in anonime casse di legno, ma per la Soprintendenza potrebbero valere più di 150mila euro. E se ne fosse accertato il valore storico-artistico – hanno scritto quasi scandalizzati i tecnici nella perizia - diventerebbero patrimonio inestimabile.

Ma del loro valore, Campolo non sembra essersi mai curato, come delle centinaia di opere d’arte che nel tempo ha accumulato. Quando gli hanno perquisito casa per la prima volta, oltre a scovare in un cassetto della scrivania oltre 200mila euro contanti che per Campolo non erano che “fondi per le piccole spese”, i finanzieri hanno trovato una collezione da museo. Esposta nei luoghi più impensati.

A vegliare su fumi e fritture in cucina c’era un Dalì, mentre un’altra tela di pregio troneggiava in bagno.
Appesi alle pareti ormai sature di un lungo corridoio, oltre cento quadri fra cui un De Chirico, un Fontana e un Sironi, incastonate in cornici grondanti oro e arabeschi. Altri ancora, fra cui un Ligabue, attendevano collocazione accatastati dietro le porte. Al netto delle croste false che il re dei videopoker nel tempo si è fatto rifilare, Campolo aveva una collezione da museo. E proprio in un museo ha trovato opportuna collocazione dopo la confisca.

Ma non si tratta dell’unico ritrovamento incredibile all’interno dello sconfinato patrimonio Campolo. Nei suoi magazzini gli amministratori giudiziari hanno trovato persino un motoscafo, sepolto sotto un cimitero di carcasse di videogiochi in compagnia di una vecchia berlina, mentre in un altro capannone c’erano tutti gli attrezzi di un'macelleria clandestina. Presumibilmente serviva a trattare la carne proveniente dalla fattoria poco fuori Reggio Calabria in cui Campolo allevava conigli, tacchini, quaglie, mucche, capre, montoni, galline e preziosi suini neri. “Per autoconsumo”, si è limitato a commentare con nonchalance.

Insieme a quadri, auto di lusso, immobili e beni di ogni genere oggi è tutto patrimonio dello Stato. Al pari della villa romana che secondo la leggenda ha ospitato la banda della Magliana e oggi è sede di un albergo di lusso con annesso bistrot. E come i locali trasformati in una sartoria che dà lavoro a donne disagiate, sedi di onlus, centri culturali, archivi della procura e sedi per il Tribunale di sorveglianza. Altri immobili invece sono stati affittati e portano allo Stato centinaia di migliaia di euro l’anno, mentre veicoli e mezzi sono stati distribuiti fra le forze dell’Ordine dell’intera provincia.

Un risultato raggiunto grazie a una “squadra” - Gico e Carabinieri del Nucleo Tutela beni culturali, sezione Misure di prevenzione della Procura, coordinata dal procuratore aggiunto Gaetano Paci e analoga sezione del Tribunale, retta da Ornella Pastore – che ha capito come lo smantellamento e la messa a valore del patrimonio del re dei videopoker potesse diventare un simbolo. Adesso del suo impero rimangono solo le macerie delle di slot machine, videopoker, videogiochi con cui l’anziano monarca dava formale giustificazione al proprio impero. Da quelle macerie è nata la seconda vita del patrimonio Campolo, tornato in mano alla città e divenuto per Reggio Calabria un manifesto di riscatto.