Tre anni fa una ispezione del ministero rilevò il problema dell’arretrato e invitò gli uffici a riorganizzarsi. All’epoca le sentenze ferme in Corte d’Appello erano 10 mila. Oggi sono quintuplicate
Tre anni di colpevole inerzia. Che hanno lasciato incancrenire la situazione quando era assai meno grave. C’è anche questo, dietro la disastrosa situazione del distretto giudiziario di Napoli, dove - ha denunciato il presidente della Corte d’Appello Giuseppe De Carolis - ci sono
50 mila sentenze che non si riescono ad eseguire per la mancanza di personale negli uffici. E dove in virtù di questo caos
12 mila condannati, anziché essere dietro le sbarre, continuano a girare a piede libero in una delle zone a più alta densità criminale d’Italia. La situazione nel capoluogo partenopeo e nel suo hinterland, infatti, non solo non è nuova ma nemmeno sconosciuta al ministero della Giustizia. Anzi.
Il problema rappresentato dalle dimensioni crescenti dell’arretrato, si è scoperto adesso, era già stato rilevato nel corso di una
ispezione ordinaria effettuata nel 2013. Quando negli uffici del Centro direzionale arrivarono i funzionari di via Arenula, ha reso noto il ministero rispondendo a
un’interrogazione parlamentare del M5S, la situazione era seria ma non ancora drammatica: in attesa in cancelleria all’epoca c’erano 4.370 sentenze, 3.647 procedimenti da rispedire in tribunale, 1.860 provenienti dalla Cassazione da ritrasmettere al giudice di primo grado, più altri 330 da inviare a Roma per il terzo grado di giudizio. In tutto, poco più di 10 mila fascicoli.
E siccome c’era il rischio che i condannati, anche a pene severe, restassero a lungo liberi a causa dei ritardi nella trascrizione, per smaltire l’arretrato “fu formulato un preciso invito al capo dell’ufficio ad adottare formali direttive di governance”. Una ricetta, quella suggerita, che prevedeva fra l’altro “la redistribuzione del personale tra i vari servizi, in modo da impegnare delle unità aggiuntive nei settori in sofferenza” e di “provvedere ad un turn over delle posizioni lavorative che possono generare stress, riducendo la produttività”.
Se la riorganizzazione abbia avuto luogo non è dato sapere. Di certo, il risultato è che in appena tre anni l’arretrato è quintuplicato e oggi mette a rischio non solo la carcerazione di migliaia di condannati ma anche il sequestro di beni, la riscossione delle pene pecuniarie e il recupero delle spese processuali. E il ministero della Giustizia, che lo scorso 8 settembre ha mandato a Napoli per una visita mirata il capo dell’Ispettorato e il capo dipartimento dell’Organizzazione, non può sostenere di non essere stato al corrente della situazione. Tant’è vero che negli ultimi due anni, per effetto di assegnazioni dirette o mobilità volontaria, sono stati mandanti nel distretto in 54 fra funzionari e amministrativi.
Il paradosso è che attualmente nel capoluogo partenopeo la scopertura rispetto alla pianta organica prevista è del 18,6%, oltre due punti in meno della media nazionale (20,9%). Segno forse, come denuncia il Comitato lavoratori della Giustizia, che
non basta mandare dipendenti provenienti da altre amministrazioni (ora perfino dalla Croce rossa) se prima non sono stati adeguatamente formati per le nuove mansioni. Altrimenti si rischia di arrivare a casi-limite come quello segnalato dal Csm: personale appena arrivato che non è nemmeno in grado di inserire correttamente nel casellario gli esiti definitivi dei processi.