"Inferno sull'Oceano", in uscita il 6 ottobre, racconta la vera storia del più grande disastro ambientale degli Usa. Il regista: «La compagnia petrolifera non voleva si girasse un film che li accusava di essere responsabili della morte di 11 persone. Le pressioni sono state enormi»

“La British Petroleum non voleva si girasse un film che li accusava di essere responsabili della perdita di numerose vite e di un disastro ambientale. Hanno minacciato di farci causa e molti accordi con partner commerciali sono stati cancellati per le pressioni esercitate da questa gigantesca corporation”. Così il regista Peter Berg racconta all’Espresso l’ostacolo maggiore per girare Deepwater – Inferno sull’oceano, in cui si racconta il vero disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, avvenuto al largo della costa della Louisiana il 20 aprile 2010, che causò la morte di 11 persone e il successivo riversamento in mare di 800mila metri cubi di greggio, il più grave disastro ambientale della Storia americana.

Nonostante le difficoltà, la pellicola arriva nei cinema il 6 ottobre, per raccontare la storia di alcune delle persone che si trovavano a bordo durante quei drammatici momenti: il tecnico elettronico Mike Williams (interpretato da Mark Wahlberg), il manager Jimmy Harrell (Kurt Russell) e il rappresentata della compagnia petrolifera, Donald Vidrine (John Malkovich). “La realtà è che i dirigenti della BP”, spiega Berg, da noi intervistato al festival di Toronto “misero sotto pressione gli impiegati a bordo della piattaforma per trovare scorciatoie, accelerare i tempi e bypassare i test, provocando così la catastrofe”.

Il film è ispirato all’articolo del New York Times Deepwater Horizon’s Final Hours. Quanto è importante il giornalismo per il cinema?
Io sono un grande fan del giornalismo investigativo, perché è un ottimo strumento per trovare storie interessanti da raccontare poi sul grande schermo. Lo dimostra il fatto che spesso ho girato film basati sul lavoro di giornalisti, come Friday Night Lights, tratto da un libro di Buzz Bissinger, o Lone Survivor che si deve al lavoro di Patrick Robinson. Adesso sto ultimando Patriots Day, sugli attentati alla maratona di Boston, che ha preso le mosse da un’inchiesta della trasmissione 60 minutes .

Quell’articolo parlava soprattutto delle persone coinvolte. Le avete incontrate?
È stato molto importante per me parlare con i sopravvissuti, sono persone coscienziose e intelligenti che hanno opinioni nette su cosa è accaduto lì sopra. Per noi era fondamentale parlarci, perché il film doveva raccontare una storia autentica.

Quindi anche se la pellicola non rinuncia a sequenze spettacolari, avete evitato di prendervi libertà drammaturgiche?
Certo, anzitutto perché eravamo guardati a vista dagli avvocati pronti a farci causa, ma anche perché gli eventi furono talmente drammatici che non c’era bisogno di enfatizzare alcunché. Tutto ciò che si vede nel film è accaduto realmente e l’unica libertà è stata temporale: nel racconto gli eventi avvengono in maniera leggermente accelerata.

Pensa che questo tipo di storie vere sia un buon antidoto al cinema hollywoodiano sempre più infarcito di cinefumetti?
Credo che ci sarà sempre una richiesta per il genere fantasy, anche se personalmente io non ho mai capito i film sui supereroi. Il problema delle storie vere rimane quello del mercato: per competere hanno bisogno di una forte componente emotiva e di un po’ di azione, e allora penso sia possibile che incassino abbastanza per sostenersi, come accaduto a film come Lone Survivor, American Sniper o Captain Phillips.

La ricostruzione della vicenda era già agli atti, ma come dice lei avete incontrato ostacoli per girare il film. È il segno che il cinema ha un impatto maggiore sulle coscienze delle inchieste giudiziarie?
Certo, perché si possono guardare ore e ore di riprese delle audizioni al Congresso dei dirigenti della BP, che poi è stata condannata a pagare più di 50 miliardi di dollari, ma si finisce per annoiarsi travolti dai tecnicismi, mentre il cinema ha il potere di portare ogni storia su un piano umano. Questo è sempre stato il nostro intento: raccontare le vite delle persone coinvolte.

Eppure anche nel vostro film avete dovuto spiegare come funziona una piattaforma...
Ed è stato difficile, perché queste piattaforme hanno un livello di complessità che si avvicina a quello dell’ingegneria spaziale. Per girare il film abbiamo dovuto capire come funzionano, cosa fanno le persone a bordo e cercare di presentare tutto al pubblico in modo comprensibile ma non semplicistico.

Ora che il film è uscito in alcuni Paesi, qual è stata la reazione della British Petroleum?
Hanno soltanto speso più soldi in pubblicità: basta accendere la tv negli Usa per vedere l’invasione degli spot della BP. È positivo per l’economia, ma magari dovrebbero imparare da questo incidente per agire con maggiore cautela in futuro. Di certo il film non fermerà la costruzione di piattaforme petrolifere.

Di recente un referendum ha affrontato l’opportunità di fermare o meno l’estrazione petrolifera in mare. Che ne pensa?
In realtà non ci sono stati tanti incidenti simili a quello della Deepwater Horizon e credo che il tema non riguardi se costruire nuove piattaforme petrolifere o no. In attesa che qualcuno trovi un’energia alternativa davvero efficiente continueremo a usare combustibili fossili. Secondo me il dibattito dovrebbe riguardare la sicurezza. Il motivo dell’incidente è soltanto uno: il denaro contava più della sicurezza delle persone o dei possibili danni ambientali. E questo non dovrebbe accadere mai.