Con "Platoon", "Salvador" e "JFK" ha raccontato le pagine più brucianti della storia americana. Ora dedica un film allo scandalo che ha coinvolto la National Security Agency. E a chi lo biasima risponde: critico gli Usa perché li amo

Quando uscì "1984" di George Orwell "Time" gli dedicò la copertina e scrisse: siamo la migliore società del mondo e non ci trasformeremo mai in uno Stato totalitario. Eppure è proprio ciò che è accaduto». Le parole di Oliver Stone pesano come macigni mentre analizza la situazione che ha dato il la al suo ventesimo film da regista in 42 anni di carriera: "Snowden", al cinema dal primo dicembre, racconta lo scandalo che ha coinvolto la National Security Agency, accusata dalle rivelazioni del suo ex brillante impiegato Edward Snowden (l’attore Joseph Gordon-Levitt), di aver creato un sistema informatico per la sorveglianza globale. L’autore di tanti controversi spaccati della Storia americana, da "Platoon" a "Wall Street", e poi "JFK", "Assassini Nati" e "W.", è lucido ma un po’ stanco: la promozione del film, praticamente affidata in toto al suo carisma in assenza della potente macchina del marketing degli Studios, lo ha costretto a viaggiare dal festival di Toronto a quello di Zurigo, le due occasioni in cui lo abbiamo incontrato. La prossima tappa è la Festa del cinema di Roma il 14 ottobre. «È difficile esercitare il diritto di critica», racconta a "l’Espresso" Stone, «Il film è stato rifiutato da Hollywood che lo considerava troppo rischioso, perché negli Usa Snowden non è visto bene come in Europa, ma con sospetto; perciò abbiamo dovuto realizzarlo con soldi tedeschi e francesi».

Sul caso Snowden esisteva già il bel documentario di Laura Poitras, "Citizenfour". Perché tornarci sopra?
«Il film della Poitras ha guadagnato solo tre milioni al box office, quindi l’hanno visto in pochi. All’inizio ero dubbioso, ma poi sono andato a Mosca, dove Snowden si trova in esilio, per incontrarlo tre volte e mi sono innamorato della sua storia. Il documentario era ottimo, ma si concentrava sull’incontro a Hong Kong in hotel con la Poitras e il giornalista del "Guardian" Glenn Greenwald, mentre per me bisognava raccontare gli anni precedenti e successivi».

Perché?
«Per far capire l’evoluzione di Snowden. È cresciuto in North Carolina, dove suo nonno lavorava per l’Fbi e suo padre per la Guardia costiera. Dopo gli attentati dell’11 settembre si era arruolato per servire il Paese. Non ci riuscì perché le sue gambe erano fragili, ma trovò il modo di farlo come informatico. La scoperta che i programmi di sorveglianza cui lavorava erano usati per esercitare un controllo economico e sociale sulle persone, gli ha fatto cambiare idea, ma credo che abbia contribuito anche la relazione con la fidanzata Lindsay Mills (nel film è Shailene Woodley, ndr)».

Snowden ha collaborato volentieri?
«All’inizio era cauto, come me d’altronde. Nessuno sapeva come sarebbe finita: avrebbero potuto bloccarci con una causa o sguinzagliare degli hacker per danneggiare il film. Ma sapeva che prima o poi qualcuno avrebbe raccontato la sua storia anche contro la sua volontà, e magari lo avrebbe dipinto negativamente. Perciò dopo aver visto alcune puntate del mio documentario tv "Usa, la storia mai raccontata", si è convinto».

Nessuna richiesta da parte sua?
«Gli interessava che fossero sottolineati il concetto di libertà di parola e di protezione della privacy dei cittadini».
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Che impressione le ha fatto di persona?
«Non è molto espansivo, come tanti altri hacker che ho conosciuto. Ma penso che Lindsay lo abbia aiutato molto: attraverso di lei, ha preservato la propria anima, mentre la Nsa voleva rubargliela. È proprio nella loro coppia che questa vicenda diventa profondamente umana, e credo che senza Lindsay, avrei girato un film diverso, più freddo e tecnico».

Come si crea un thriller a partire da eventi che hanno già avuto un esito?
«Uno degli elementi del genere è il tempo che incalza chi è in pericolo. Quindi nello scriverlo con Kieran Fitzgerald ci è venuta l’idea di creare un thriller attorno alla pubblicazione delle sue rivelazioni da parte del "Guardian". Perché è chiaro che la Cia, venuta a conoscenza del loro piano, avrebbe potuto sfondare la porta di quella camera d’albergo e fare sparire tutti. Non credo che Snowden avrebbe ottenuto lo stesso impatto se si fosse rivolto a uno dei più importanti media americani».

Perché?
«La loro politica è quella di occultare molte verità: è sempre stato così ma adesso questa tendenza è aumentata in questa atmosfera di insano patriottismo. Per questo non si deve mollare mai: abbiamo bisogno di persone che mettano in discussione l’establishment. Io ho sempre cercato di fare la mia parte. Se guarda i miei film, "JFK", "Nato il quattro luglio" o "Platoon", troverà sempre lo stesso tema: mettere in discussione l’autorità. Non ci si dovrebbe mai fidare del Governo, e penso che gli americani siano molto stupidi nel rinunciare ai propri diritti civili in cambio della falsa promessa che il Governo li proteggerà».

Quando è iniziata questa narrazione della realtà?
«Dopo l’11 settembre George W. Bush ha dichiarato guerra al mondo e ha detto: chi non è con noi è contro di noi. Un’idea che ha riportato l’America agli anni ’50, quando John Foster Dulles disse che essere neutrali era immorale».

Secondo lei utilizzo della tecnologia e democrazia possono coesistere?
«È molto difficile sfuggire al controllo, perché tutti abbiamo uno smartphone, però si può tentare di combatterlo, per esempio utilizzando programmi di crittografia. Purtroppo viviamo in uno Stato totalitario che ci domina attraverso la tecnologia, ma questa può essere usata in modo positivo o negativo. Il Governo dice che tutto viene fatto in nome della nostra sicurezza, ma io vorrei prove che sorvegliarci abbia prodotto effetti positivi. In realtà è accaduto il contrario».

Vale a dire?
«Il lavoro investigativo richiede un’intelligence umana oltre che tecnologica e usata limitatamente può essere molto efficace, ma con la loro sorveglianza a tappeto, più volte i servizi americani si sono lasciati sfuggire potenziali terroristi, come gli attentatori di Boston o di San Bernardino. La Nsa prima dell’11 settembre aveva tracciato due futuri dirottatori, scoprendo che chiamavano il telefono dell’appartamento ritenuto il covo di Bin Laden in Yemen. E nonostante poi i due si siano spostati a San Diego, l’Nsa non ha avvertito l’Fbi. L’11 settembre è stato un disastro dell’intelligence, e il paradosso è che invocano più sorveglianza, mentre già spendono 52 miliardi di dollari l’anno. Fanno come i nazisti nel 1933, quando iniziarono a promulgare leggi con la scusa che la Germania era minacciata dall’esterno».

Adesso l’America si prepara ad un cambio di guida. Che ne pensa di Trump e Clinton?
«Non sono candidati seri, non parlano di Stato di sorveglianza, né di cambiamento climatico o di argomenti fondamentali: si occupano solo di stronzate. Entrambi sono affossati dagli scandali: non c’è democrazia nella scelta tra uno e l’altro. Bernie Sanders era la migliore espressione di un cambiamento radicale, soprattutto economico, voluto dal popolo, ma il leak di e-mail del Comitato nazionale democratico ha rivelato il sabotaggio nei suoi confronti. Uno scandalo paragonabile al Watergate, ma ovviamente i democratici hanno spostato l’attenzione su fantomatici hacker russi, per evitare che si parlasse a fondo del contenuto di quelle comunicazioni. È la stessa tecnica usata con Snowden».

In che senso?
«Snowden è dispiaciuto che tutti si concentrino su di lui anziché sul contenuto di quanto rivelato. Ma è più facile occuparsi della persona anziché del messaggio, soprattutto se è complesso».

Che ne pensa del Presidente uscente?
«Obama ha promesso che avrebbe fermato le intercettazioni abusive e che la sua amministrazione sarebbe stata la più trasparente. Al contrario è la più segreta di tutte e la più efficace nell’opprimere i giornalisti liberi. Ha oppresso come nessuno mai prima anche quelli che hanno spifferato la verità, e pur odiando i leak, promuove rivelazioni che gli fanno comodo. I media più importanti d’altronde si sono trasformati in organi di comunicazione del Governo e hanno smesso di investigare, perché è poco profittevole e molto pericoloso».

Quindi come se ne viene fuori?
«In America abbiamo bisogno di un terzo partito, come è accaduto in Europa con i 5 stelle o con Podemos. Oggi il partito democratico sostiene la guerra quanto quello repubblicano, anche Hillary ne è una sostenitrice, mentre sarebbe interessante vedere i democratici spingere per la pace. Anche Sanders era spaventato a parlare di pace perché non voleva mettersi contro i media che lo avrebbero bollato come uno fuori dalla realtà».

Da poco ha compiuto 70 anni. Al suo ventesimo film se la sente di fare un bilancio?
«Sono molto felice di essere vivo e lavorare, e di poter dire ancora qualcosa con i miei film. Credo che anziché raccontare il sogno americano, mi sono dedicato all’incubo americano: sono stato in Vietnam e ho visto le mostruosità che abbiamo compiuto, i bombardamenti, i milioni di morti. "Salvador", il film che ho girato al mio ritorno, parlava delle stesse cose: ho visto con i miei occhi le truppe americane che aiutavano le squadre della morte, mentre il nostro Governo negava ogni cosa. Ovunque siamo andati abbiamo fatto danni, come in Nicaragua e in Honduras, dove Hillary Clinton ha responsabilità nella recente cacciata del presidente democratico da parte dei militari. E io cosa dovrei fare: mentire?».

Per questo l’hanno tacciata di essere anti-americano…
«Gli stati autoritari usano parole come questa, è un’espressione fascista usata per mettere in cattiva luce. Io amo il mio Paese e proprio per questo mi sento in dovere di criticarlo: non è che se faccio una critica a mia madre, divento anti-madre!»

Crede che il cinema svolga ancora un ruolo importante di critica sociale?
«Negli anni Settanta, il cinema americano è stato plasmato dalla disillusione del Vietnam e ha prodotto sceneggiature critiche della politica americana. Ma almeno dai tempi di Reagan, questo tipo di cinema è progressivamente scomparso. La maggior parte dei film oggi è pro America, e Cia e militari sono gli eroi, al cinema e in tv, da "24" a "Homeland", da "Lone Survivor" ad "American Sniper". Per me il cinema è un meccanismo per ricercare la verità e superare la soglia del politicamente corretto. E riesce ad essere più efficace di qualsiasi discorso».

Quindi può cambiare il mondo?
«Sono molto realista: molto spesso un film crea un grande rumore intorno a un argomento ma poi non accade proprio niente, non c’è nessun cambiamento. Anzi molto spesso si ottiene il risultato contrario. Purtroppo si è avverata la profezia di Jim Garrison, procuratore dell’inchiesta sull’assassinio di JFK: il fascismo si mostrerà in America con un volto amichevole, quello di potenti corporation amichevoli e di guerre giuste da combattere. Però ho la speranza che da qualche parte ci sia la giustizia e che ogni tanto torni ad apparire, come è accaduto con Martin Luther King. Spero che la gente abbia a cuore l’avvenire dei propri figli. Anche se nel futuro di chi nasce oggi una sola cosa è certa: la privacy non esisterà più».