Il summit sui cambiamenti climatici produce una prima versione dell'accordo. Restano ancora da definire tre punti cruciali e delicati. E l'impressione generale è che il risultato finale non sarà "memorabile"

In fondo in fondo, il summit delle Nazioni Unite sul clima in corso a Parigi, è tutto una questione di matematica. «Abbiamo ridotto il testo dell’accordo da 43 a 29 pagine», ha annunciato il ministro Laurent Fabius, presidente della conferenza, nel consegnare alle 195 delegazioni del mondo la prima bozza ufficiale del trattato che dovrebbe essere firmato entro venerdì. «E siamo riusciti – aggiunge con soddisfazione – a ridurre le parentesi quadre di due terzi», ovvero circa del 66 per cento.

In quest’ultimo caso non si tratta di algebra, ma delle parentesi quadre che definiscono tutto quel che si [deve] [dovrebbe] [potrebbe] fare per evitare al pianeta una catastrofe climatica nel futuro più o meno prossimo. Siccome queste opzioni aperte fino a ieri erano 940, il fatto che si siano ridotte di due terzi (anche grazie allo stralcio di intere pagine) vuol dire che ne sono rimaste circa 313. «Abbiamo fatto grandi progressi negoziali – ha rimarcato Fabius ai delegati – ma nelle prossime 48 ore dobbiamo raggiungere ancora molti compromessi. Non esiste accordo, se non ci accordiamo fino alla fine».

Alla conferenza parigina circola la sensazione che i paesi delle Nazioni Unite siano vicini a un’intesa che, dopo anni e anni di insuccessi diplomatici, entrerebbe nella storia. Ma la cui portata potrebbe essere tutt’altro che memorabile.

Parte integrante dell’equazione negoziale, sono le tre grandi questioni che – ammette Fabius – restano aperte. La prima è la “differenziazione”, strana parola con scivolose implicazioni: la ridefinizione dei confini fra paesi sviluppati e in via di sviluppo, visto che alla seconda categoria appartengono attualmente nazioni come la Cina (oggi il maggiore emettitore di anidride carbonica al mondo) e l’Arabia Saudita (che è ai vertici della classifica per reddito procapite). Transitare da una categoria all’altra, comporta l’obbligo di ridurre le emissioni e di finanziare i più poveri.

La seconda questione aperta riguarda proprio le risorse finanziarie, dove la matematica diventa cruciale. Le tre opzioni aperte all’articolo 6, prevedono il flusso annuale di 100 miliardi di dollari dal mondo ricco a quello povero, con la possibilità di aumentarlo ma non di diminuirlo. «A livello globale – ha detto il segretario di Stato John Kerry, annunciando un aumento dei contributi americani – i finanziamenti privati per i progetti climatici hanno già raggiunto la ragguardevole cifra di 650 miliardi all’anno». Lo stesso capo della diplomazia statunitense ha ricordato che, per tenere al passo il sistema energetico mondiale c’è bisogno, da qui al 2035, di 50mila miliardi di dollari di investimenti, il più possibile nelle fonti rinnovabili.

Infine, resta aperta la questione cruciale degli obiettivi climatici da raggiungere. Fra le varie opzioni, non si esclude ancora di contenere l’aumento della temperatura entro gli 1,5 gradi centigradi, nonostante gli scienziati abbiano messo in chiaro che questo richiederebbe misure drastiche, come raggiungere le emissioni-zero nel giro di 20 anni. L’accordo di Parigi, se firmato, entrerà in vigore nel 2021. In questo orizzonte temporale, è certamente criticabile il fatto che l’attuale bozza preveda una revisione degli impegni nazionali dal 2023 o dal 2024 in poi, invece che fra quattro anni come si prevedeva.

«Ci sono gli ingredienti per un accordo ambizioso – è la risposta del Wwf – ma le decisioni difficili non sono state ancora prese: i ministri hanno solo due giorni per decidere se il mondo è sul cammino degli 1,5 o dei 3 gradi centigradi». È più o meno quel che commentano le altre Ong e gli osservatori del negoziato.

«Preparatevi a lavorare, durante la notte», ha raccomandato Fabius alle delegazioni. Se si vogliono sciogliere 300 nodi nelle restanti 48 ore – basta fare le divisioni – i diplomatici del clima non hanno neanche un’ora da sprecare.