“L’Espresso” è salito sulla Cavour, la nave ammiraglia della Marina europea in rotta sul Mediterraneo alla ricerca dei trafficanti di uomini. Una sfida che si ripete ogni giorno, fatta di tecnologia ma anche di umanità (Foto di Massimo Sestini per l’Espresso)

L'azzurro è sparito, inghiottito da un blocco scuro, sempre più minaccioso, che fonde vento e flutti in un’immensità grigia come metallo liquido. Arriva la tempesta e il gommone ci si infila dentro avanzando dalla Libia verso la Sicilia: miglio dopo miglio, le onde si fanno più alte e sembrano stritolare quei quattro metri di plastica a cui sono aggrappate le vite di cento persone. I trafficanti sperano che il brutto tempo tenga lontani gli elicotteri europei quel tanto che basta per permettergli di spedire a largo il loro carico e tornarsene al sicuro: una scommessa in cui la loro impunità conta più della salvezza dei bambini e delle donne che hanno pagato per attraversare il mare.

Il quadrimotore spagnolo P3 Orion invece non teme quell’anticipazione d’inverno a sud di Malta. Ha preso il volo da Sigonella e con il suo radar scruta centinaia di chilometri di onde. Inquadra il gommone e guida fino lì un EH101, il più potente elicottero della Marina, che con un visore all’infrarosso studia i passeggeri uno dopo l’altro da dieci miglia di distanza. Nessuna figura sospetta, sono tutti disperati: chi ha impostato la rotta è già scappato. La notte successiva, con la bufera che gonfia acqua e cielo, invece sensori della flotta italiana inquadrano una barca zeppa di migranti trainata da un peschereccio. Non si tratta di soccorritori: sono scafisti, che vengono filmati a lungo prima di passare all’azione. Nell’oscurità totale scatta l’abbordaggio dei marò. Chi ha bisogno di aiuto viene trasferito sulla fregata Fasan, gli schiavisti finiscono in manette.

Dal 7 ottobre nel Mediterraneo è cambiato tutto. Ogni presunto scafista che esce dalle acque territoriali libiche può essere arrestato, con una delibera delle Nazioni Unite e una decisione della Commissione Europea che autorizzano l’intervento armato. Dieci navi e altrettanti velivoli hanno steso una rete elettronica che copre 160 mila chilometri quadrati, con una missione apparentemente impossibile: intrappolare gli scafisti e salvare tutte le persone in fuga.

È questo il mandato di Eunavformed, la flotta europea incaricata di fermare i trafficanti. Sono fregate, corvette, pattugliatori, rifornitori con poco meno di duemila militari di 22 paesi: tra gli altri, inglesi, francesi, tedeschi, belgi, sloveni, irlandesi, spagnoli, finlandesi e persino lussemburghesi. I mezzi più moderni di cui dispongono gli arsenali del Continente, tra radar, missili e dotazioni d’assalto. Occhio e croce, si tratta di armamenti per otto miliardi di euro che richiedono decine di milioni per ogni mese di navigazione. Senza dubbio, siamo all’apice dei conflitti asimmetrici, con una forbice enorme tra la tecnologia messa in campo dall’Europa e l’equipaggiamento primordiale degli scafisti.

Tirare le somme e parlare di sprechi è facile. L’aritmetica non permette di cogliere la portata di questa operazione. Che non solo è la prima realizzata sui confini marittimi dell’Unione ma cerca di concretizzare nel Mediterraneo l’evoluzione massima del concetto più discusso degli ultimi venticinque anni, quello di “guerra umanitaria”. Il nemico infatti non è uno stato canaglia, né un’organizzazione terroristica: qui bisogna combattere una rete di trafficanti pienamente inserita nel disfacimento libico, che dà lavoro a molte persone, quasi sempre part time, e alimenta una filiera di sfruttamento. Ma che al tempo stesso rappresenta l’unica speranza per la moltitudine in fuga dai massacri del Medio Oriente e dalla fame dell’Africa.

In Libia i ruoli di vittime e carnefici sono confusi, così come le responsabilità dei complici tra pescatori, camionisti, imprenditori, leader tribali, miliziani e governi rivali pronti a far partire i loro vecchi Mig - come è accaduto sabato 31 ottobre - se navi straniere si avvicinano alla costa. «E noi dobbiamo realizzare interventi a rischio zero. Non possiamo sbagliare: non può esistere il rischio di danni collaterali», spiega il contrammiraglio Andrea Gueglio, comandante in mare della flotta Ue: «Ci succede di salire su imbarcazioni in condizioni pessime, barconi marci che si sbriciolano sotto i piedi o gommoni artigianali, stipati fino all’inverosimile di gente. Basterebbe sbagliare una sola mossa per provocare un disastro. E dobbiamo occuparci contemporaneamente della caccia agli scafisti e del soccorso ai migranti». L’obiettivo è distruggere il network degli schiavisti, identificandoli, catturandoli e soprattutto distruggendo i barconi che sono lo strumento chiave dell’organizzazione. «I satelliti ci mostrano che ne hanno ancora tanti. E altri ne producono in piccoli cantieri: abbiamo sequestrato scafi di legno fresco», continua l’alto ufficiale.

L’ammiraglia è la Cavour, una base galleggiante imponente che ha una stazza di 27 mila tonnellate ed è lunga 244 metri. Lì quasi 600 persone vivono per settimane senza vedere il mare, correndo su e giù in un dedalo di quindici ponti illuminati da lampade rossastre. Non ci sono oblò e le uniche vetrate si trovano nella sala comando e nella “torre di controllo”, dove sembra che il potere sia in mano alle donne: è una ragazza al timone, un’altra alla direzione dei motori, un’altra a coordinare lo spazio aereo. Il ventre della portaerei è una caverna d’acciaio: l’hangar che scorre per 134 metri e dove si può custodire di tutto, dai caccia a decollo verticale Harrier ai carri armati Ariete da cinquanta tonnellate.

Il cervello invece è la zona “classificata”: le sale operative top secret dove arrivano i dati raccolti dai radar di bordo e quelli trasmessi dal resto della flotta. Sugli schermi si forma la visione completa di quello che accade nell’intero Mediterraneo centrale. «La Cavour sono quattro navi in una. È contemporaneamente una portaerei; un’unità per azioni di sbarco, che può ospitare seicento “marines”; un ospedale navigante con due sale operatorie e un quartiere generale per dirigere operazioni su vasta scala», illustra Alberto Sodomaco, 46 anni, che dallo scorso primo ottobre comanda il mezzo più costoso e avanzato costruito in Italia.

L’Europa è stata insolitamente veloce. A Bruxelles si è parlato per la prima volta della missione il 23 aprile, due mesi esatti dopo le navi erano già all’opera per raccogliere intelligence sui trafficanti. E dal 7 ottobre è scattata la fase due: il contrasto armato in acque internazionali. Quando ci sarà un governo libico unitario con cui trovare un accordo, si potranno estendere le ricerche fino al bagnasciuga e poi lanciare la caccia anche sulla terraferma.

Gli scafisti sentono già la morsa. Da agosto le partenze si sono ridotte. E i profitti crollati: usano sempre meno barconi - che gli garantiscono un utile di 380 mila euro a viaggio - e puntano sui gommoni, con un guadagno di 67 mila. I trafficanti temono di perdere i mezzi migliori, mandano pescherecci a studiare le mosse della flotta. Che a sua volta, li filma e identifica per acquisire indizi e procedere alla cattura quando escono dai confini marittimi. «La nostra è una maratona, non uno scatto. Abbiamo già dei risultati concreti, ma ci vuole tempo», conclude il contrammiraglio Gueglio.