Tutti condannano la violenza. Ma non accettano la satira sul Profeta. E non manifestano per i giornalisti uccisi. Da Milano a Catania, viaggio nelle reazioni dei musulmani di casa nostra

Non si piange per “Charlie”. A Milano come a Roma, come in Sicilia. I musulmani italiani condannano senza mezzi termini gli attacchi di Parigi. Ma in tanti sembrano pensare sotto sotto che “Charlie Hebdo” se la sia cercata, perché non si scherza sul Profeta. Anche per questo in pochi sono scesi in piazza in difesa delle vittime.Tra i negozi arabi intorno alla moschea di Centocelle, ad esempio, “Charlie Hebdo” non venderebbe neanche una copia. «C’è differenza tra la satira e l’insulto, lo ha detto pure il “New York Times”, sai? E anche il “Financial Times” scrive che un po’ se la sono cercata», dice Hassan, 25 anni, italiano di seconda generazione, asciugandosi le mani sul grembiule giallo.

È venerdì, primo pomeriggio. A Parigi i fratelli Kouachi, autori della strage alla sede del giornale satirico “Charlie Hebdo”, stanno per concludere tragicamente la loro fuga. Alla moschea di Centocelle, periferia est di Roma, è appena finita la preghiera più importante della settimana, e molti si fermano all’alimentari di Hassan. Abbi, autotrasportatore di 46 anni dal forte accento romano, è in Italia «da quando Berlusconi aveva ancora i capelli». Dice che serve rispetto per le religioni: «Voi invece siete timidi pure quando qualcuno vuole togliere il crocefisso nelle scuole». Ma non “rispettare” l’Islam, come hanno fatto i vignettisti di “Charlie Hebdo”, meritava la morte? Abbi sbuffa, ci riflette, e risponde che no, «bisogna pensarci 200mila volte prima di uccidere». «Dai retta a me che sono un commerciante», interviene Aziz, 35 anni, «quelli prendevano in giro Maometto perché volevano vendere più copie, e poi potrebbe essere stato il Mossad, per punire la Francia che ha riconosciuto la Palestina».


Tutti condannano gli attentatori parigini, e in modo sincero. Li definiscono dei «fanatici che non c’entrano niente con l’Islam». Ma quanto a “Charlie Hebdo”, nessuno mostra solidarietà verso chi ha giocato con il fuoco della blasfemia.

La moschea di Centocelle è tecnicamente un’associazione, un luogo di preghiera ricavato in un’ex palestra sotterranea. È frequentata da 2mila fedeli, soprattutto nordafricani. Il responsabile, Mohamed Ben Mohamed, 59 anni, tunisino, ci accoglie nel suo ufficio. Dietro di lui c’è una cartina della Palestina in cui non c’è traccia di Israele («Eh, sì, per noi non dovrebbe esistere», allarga le braccia). E anche la sua condanna degli attentati è totale: «Quelli non c’entrano niente con l’Islam. Anche se è stata offesa la nostra comunità, la risposta non può essere la violenza».

Seicento chilometri più a nord, a Milano, intercettiamo toni e concetti molto simili. «Quella di “Charlie Hebdo” era violenza. Verbale. Ma niente giustifica gli omicidi», sostiene l’imam di Segrate Ali Abu Shwaima, che nel 2003 è stato aggredito da un fondamentalista perché “troppo moderato”. «Guarda le mie mani, sono uguali alle tue. Io lavoro tutto il giorno. Ho una famiglia. E devo leggere sui giornali che la mia religione uccide. È falso!», quasi urla Ahmed, un ragazzone egiziano, di fretta per il sermone. «Dovrebbe esserci una legge che impedisce di insultare il Profeta», ammonisce un fedele appena uscito dal campo di basket, affittato per la preghiera. «Troppe cose non tornano. Qui c’è un gioco politico. Contro l’Islam», aggiunge invece Alì, fuori dalla moschea di via Padova.

Nel profondo Sud, nel sentire religioso di quel grande calderone multiculturale che è la Sicilia, c’è chi, come Kheit Abdelhafid, 47 anni, il presidente della comunità islamica nella regione, ci spiega che «non è possibile accettare che il nostro amato Profeta e la nostra religione vengano bestemmiati in quel modo, ma al tempo stesso non accettiamo la violenza». E se il cantastorie sciita iracheno Yousif Latilla dice che «chi sostiene di combattere in nome di Allah non può dirsi musulmano», c’è anche il 25enne Ahmed che si professa integralista e ricorda: «L’anno scorso in Siria sono morte 60mila persone. In Iraq muoiono a migliaia. Qualcuno in Europa è sceso a manifestare, come è stato fatto per “Charlie Hebdo”?».

Satira e Islam, un rapporto difficile. Davanti alla Grande Moschea di Roma, nel nord della capitale, ne parliamo con Ahmad Ejaz. Pakistano, 52 anni, è in Italia dal 1989. Fa parte della Consulta islamica del Ministero degli Interni, ed è direttore di un quotidiano online in urdu, “Azad” (Libertà). Ahmad racconta con amarezza di essere stato uno dei pochi musulmani a scendere in piazza davanti all’ambasciata francese. Come se lo spiega? «Molti di noi provengono da dittature in cui non era possibile scherzare neppure sul potere. Persino oggi, quando sul mio giornale do del tu al presidente pakistano, c’è qualcuno che mi scrive “Ma come ti permetti?”. Figuriamoci se possono accettare la satira, e su Maometto. Tanto più che non è nella cultura islamica nemmeno la raffigurazione dei Profeti».

Per l’imam di Lecce, Saifeddine Maaroufi, il rapporto con la blasfemia è più sentito dai musulmani che dai cristiani, perché «il fattore religioso è molto più presente nella nostra vita». Quindi sì, quelle vignette «offendono», non bisogna nascondersi, «noi non siamo abituati ad accettare una desacralizzazione così spietata dei nostri principi». Tutto questo però, anche per lui, non giustifica nulla: «La risposta migliore è quella che hanno dato alcuni sapienti alle vignette danesi. Sono andati a parlare, a spiegare cos’è la nostra religione».

Yahya Sergio Pallavicini, imam della moschea milanese Al-Wahid di via Meda e vicepresidente della organizzazione Coreis, distingue diversi tipi di musulmani italiani: «Il primo è occidentalizzato, abituato a scherzare sulle cose, di seconda o alla terza generazione. Non gli piacciono quelle vignette, ma è pronto a discuterne. Poi c’è chi è immigrato da poco e il suo sdegno è fortissimo. Infine c’è tutta un’area ambigua, che confonde i suoi problemi con l’odio verso l’Occidente, li usa come pretesti per giustificare il terrorismo. Tra questi ragazzi trovi anche persone malate, “avvelenate”, ed è metodologicamente sbagliato trovare una motivazione alle loro azioni». Neanche in punta “di diritto”, peraltro, le vignette di “Charlie Hebdo” varrebbero la pena di morte: «La sharia, la legge islamica, può essere applicata solo all’interno di uno Stato islamico, mai in forma extraterritoriale».

E per la sharia si può scherzare sul Dio cristiano? «No, il rispetto vale anche per gli altri culti».
Questa non-tolleranza verso chi offende la religione rende difficile alla comunità musulmana condividere del tutto i valori di una democrazia laica. Dietro ci sono tante ragioni storiche e religiose. Un’altra è sicuramente il clima anti-islamico. La Lega di Matteo Salvini lo cavalca nonostante in Italia i musulmani siano, secondo la stima di Caritas, solo 1,7 milioni, perlopiù provenienti da Marocco, Tunisia, Albania e Senegal, mentre in Inghilterra ne vivono 3 e in Francia e Germania più di 4.

Abdelaziz Almouklis, imam della moschea di Palermo, teme «che quel che è accaduto in Francia possa peggiorare la vita dei tanti fedeli che vivono in Italia». Invece Abdelhafid, che è anche l’imam di Catania, ci dice di essere pronto alle vie legali «contro quei politici che hanno approfittato dell’attacco terroristico per sputare veleno e offendere la nostra religione».

A Milano, dalla multietnica via Padova alla vicina Segrate, tanti si sentono in trappola. «Sì, ho paura delle conseguenze di Parigi», confessa un ventenne egiziano, Amro, mentre sullo sfondo alcuni pensionati invitano a «mandarli via tutti, marocchini, arabi, via!». «Siamo noi le prime vittime di Isis e Al Qaeda», ricorda Benaissa Bounegab, presidente della Casa della Cultura islamica di Milano, sede in un pianoterra di un palazzo popolare, uno dei 700 luoghi di preghiera improvvisati dei musulmani italiani, tra garage, scantinati e magazzini: le moschee ufficiali, con minareto, sono solo 5, quelle di Segrate, Roma, Colle Val d’Elsa, Ravenna e Catania, e per i 100mila fedeli di Milano non ce ne è neanche una.

Sui social network c’è anche chi critica quei correligionari che, eccedendo nella condanna del blitz, sarebbero finiti a difendere “Charlie Hebdo” e la sua satira irriverente. «Mentre molti musulmani si precipitavano a piangere in pubblico per “Charlie”, un piccolo profugo siriano è morto congelato», scrive su Facebook Aisha Barbara Farina, ex moglie dell’imam integralista di Carmagnola, espulso nel 2003.

Qualcuno, come Pallavicini, si dice comunque ottimista. «Non esiste una pillola per diventare italiani. È stato un lungo processo anche per i cattolici e gli ebrei, e tanto più lo è per una comunità complessa, che deve apprendere la lingua e declinare la sua religione in un contesto liberale in cui esistono delle provocazioni. Non dimentichiamoci poi che l’Islam non ha un papa, che siamo divisi in arabi, asiatici, centroafricani, senza contare i convertiti (che sarebbero 70mila secondo l’Ucoii, ndr)».

Il dibattito più intenso lo si ritrova forse tra i giovani istruiti, quelli che studiano nelle nostre università e si mescolano ogni giorno ai non-musulmani. Molti sono impegnati. Come Khalid Chaouki, deputato del Pd di 32 anni, nato a Casablanca e cresciuto in Emilia. O come il laico Rabih Bouallegue, 26, blogger tunisino che vive a Palermo e ha il gusto della provocazione. Il giorno dopo l’attentato di Parigi era in un caffè-libreria: «Ho notato che un sacco di persone leggeva. C’era un giornale con un titolo che parlava di “terroristi islamici”. Con la penna ho cancellato il termine “islamici”. Mi hanno guardato come fossi anche io uno dei cattivi, ma in realtà volevo far capire a tutti quanto la violenza non abbia nulla a che vedere con la mia religione».

Tanti sono arrabbiatissimi. Perché attentati come quelli di Parigi significano nuove occhiatacce, provocazioni e insulti quotidiani. Come quelli che racconta nelle sue vignette Takoua Ben Mohamed, 23 anni, che è anche figlia del responsabile della moschea di Centocelle. Non se l’è sentita di scrivere né “Je suis Charlie”, che significherebbe condividere le vignette anti-Maometto, né “Je ne suis pas Charlie”, che potrebbe suonare come una mancanza di rispetto per le vittime. Nei suoi fumetti Takoua racconta il disagio dei tanti giovani correligionari che vengono additati per strada come terroristi, magari solo perché portano, come lei, il velo. Takoua conosce dei musulmani che riderebbero leggendo “Charlie Hebdo”? «No, non credo. Forse in effetti dovremmo imparare ad essere un po’ più “sportivi”, a non farne un gran problema. Perché in fondo, diciamolo, sono solo vignette».