È ancora lì, davanti al Giglio, e nessuno decide cosa farne. Intanto il governo cancella il decreto che finanziava un tratto di autostrada già cominciato e di cui si parla dal 1968. Ma lo si vuole completare o no? E non si è parlatodi “sblocca Italia”?

Merita attenzione una storia apparentemente minore che però sembra riassumere in sé un certo modo italico di fare politica, e politica economica, che non vorremmo più vedere. Dunque è successo che venerdì 20 giugno, poche ore prima che si riunisse il Consiglio dei ministri, sparisse dall’ordine del giorno un decreto del governo con il quale si distribuivano un po’ di soldi per opere pubbliche, importanti e meno importanti, ma comunque già avviate, con tanto di operai in azione e gru in movimento. Lavori che adesso si fermeranno per mancanza di soldi. Per un premier che ha coniato lo slogan “sblocca Italia” – da ritardi, pastoie e burocrazia – l’improvviso stop non suona bene.

Dentro quel decreto in verità, c’era un po’ di tutto: metropolitana di Napoli e raddoppio di linee ferroviarie; infrastrutture stradali e portuali primarie (Piombino) e secondarie; e soprattutto l’eterno completamento dell’Autostrada Tirrenica per la quale si progetta e ci si accapiglia – senza costrutto – dal 1968. Sì, avete letto bene: 1968. E correva l’anno 1982 quando la società concessionaria fu poi autorizzata a farla, questa benedetta (o maledetta) autostrada, e da allora ne sono passati altri trenta perché – dopo rinvii, cambi di tracciato e blocchi stradali – si lavorasse di piccone e macchine movimento terra all’inizio e alla fine della tratta: su a Cecina, regno incontrastato di Altero Matteoli, dove sono stati ultimati quattro faraonici chilometri di caselli e raccordi con l’autostrada per Genova (costo 55 milioni,13 mila e 750 euro al metro); e da Civitavecchia a Tarquinia dove sono stati già divelti alberi, espropriati campi, spianati terreni in attesa della proverbiale colata di asfalto. Che per ora non ci sarà. Fino a quando? E innanzitutto, perché lo stop inatteso?

Ogni ipotesi è ammessa: che a Renzi stia a cuore l’operoso nord, dove ha stravinto alle Europee e dove i soldi sono puntualmente arrivati – Pedemontana Lombarda, Brebemi, Pedemontana Veneta – e non il molle centro sud; che nella vicenda pesino antiche ruggini che sembravano superate con il governatore toscano Enrico Rossi; che si sia stufato di finanziamenti a pioggia e sogni progetti finalmente organici; che più probabilmente, come in fondo ci auguriamo, tutto questo ben di di dio di opere pubbliche gli serva per sedersi al tavolo delle trattative con l’Ue, forte della presidenza del Semestre europeo, e strappare il fatidico sì a escludere gli investimenti produttivi, come considera questi, dal computo del deficit pubblico. Presto sapremo, al netto dei falchi tedeschi che già strepitano contro le violazioni dei patti.

Ora però, pur lasciando da parte le illazioni, e anche l’eterna guerra tra ambientalismo e ansia del fare, la quarantennale vicenda autostradale parla da sola. In giro per il mondo, una qualunque cosa o si fa o non si fa. In italia, invece, dove la linea più breve tra due punti è l’arabesco (Ennio Flaiano), non si fa ma si fa, oppure si fa ma non si fa. Va’ a sapere. Il project financing privato, per esempio, è in qualche modo benedetto dalla garanzia statale, e vabbè; ma quando per la crisi economica i conti (dei privati) sballano, come in questo caso, ecco che la garanzia (dello Stato) latita; e se un ministro dice sì, il premier può dire no; e se un governo accelera i lavori, ecco che il successivo può frenarli, bloccarli, smentirli. È troppo dopo trent’anni chiedere una parola definitiva, o si ferma tutto per costi eccessivi e danni all’ambiente, o si va avanti senza indugi? Purché si decida, per favore.

A questo punto, per associazione di idee, torna a mente un’altra storia, anch’essa apparentemente minore e così tristemente italiana, quella della Costa Concordia. Che affonda per una bravata da guappo, risorge per un “torni a bordo, cazzo” e brilla per il genio italico che la rimette in piedi. E che poi però resta lì immobile davanti al Giglio per mesi, in attesa che qualcuno ne decida il destino ristrutturatorio. Che magari sarà lontano da qui, in Turchia, dove la carcassa arriverà dopo aver pericolosamente attraversato santuari che in altri momenti si vorrebbero vergini. Faciloneria, estro, irresponsabilità. Se, come s’usa dire, riuscissimo a cambiare verso anche qui, il Paese ci guadagnerebbe davvero.

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