Gli eventi estremi aumentano con la temperatura planetaria, dice Kerry Emanuel, meteorologo del Mit. Ma «prendere decisioni oggi nell’interesse di un futuro lontano, non è nelle corde della politica»

CAMBRIDGE, Massachusetts -
Il primo giugno, come ogni anno, sull’Atlantico si apre ufficialmente la stagione degli uragani: da oggi a fine novembre, le alte temperature nel Golfo del Messico e nei Caraibi aumenteranno l’evaporazione dell’oceano e quindi la probabilità di tempeste tropicali.  Le quali, in particolari condizioni, possono trasformarsi in uragani dal nome sinistro. Come Katrina, che nel 2005 ha distrutto New Orleans. O come Sandy, che nel 2012 ha flagellato un’area immensa, che va da Cuba a New York.

«Il consenso degli scienziati è che il riscaldamento climatico provocato dalla combustione di petrolio, gas e carbone aumenti l’intensità e la frequenza di questi fenomeni», rimarca Kerry Emanuel, professore di meteorologia al Massachusetts Institute of Technology, uno dei massimi esperti mondiali di uragani. Eppure, è ancora impossibile dire che Sandy sia stata causata dal climate change. «È come con le sigarette: si sa per certo che raddoppiano l’incidenza dei tumori, ma non puoi dire che siano state la causa di un singolo decesso».

Se è per questo, Emanuel si rifiuta di fare previsioni sulla stagione degli uragani che va a cominciare. «Sono contrario a fare pronostici a fronte di così basse probabilità di successo», dice ridendo. Un pronostico l’ha fatto il Tropical Storm Risk, un consorzio di assicuratori e scienziati: la stagione 2014 dovrebbe essere «quasi normale», con 14 tempeste tropicali, 6 uragani e tre di forte intensità. Eppure nessuno può escludere che uno dei nomi, da Arthur a Wilfred, predisposti quest’anno dalla World Meteorological Organization per nominare (e numerare in ordine alfabetico) gli uragani, non finisca per diventare sinistro come Sandy o Katrina.

(nel grafico sovrastante i dati che evidenziano la tendenza all'aumento di intensità degli uragani, con i dati in rosso che si riferiscono agli eventi di grande portata)

«I dati statistici hanno senso solo se si osservano i decenni», dice il professore delll’Mit. «Non c’è dubbio che dagli anni ‘80 in poi, il numero e l’intensità dei fenomeni più rilevanti sia aumentato. Ma ci sono fondati sospetti che questo dipenda anche da un’altro fattore: gli aerosol di solfati. Fra gli anni ‘40 e ‘70, la pessima combustione delle fonti fossili immetteva nell’atmosfera particelle di zolfo che, riflettendo la luce solare, avevano raffreddato l’Atlantico tropicale riducendo così l’attività delle tempeste e il numero degli uragani».

E poi cos’è successo? «Alla fine degli anni 70 – racconta Emanuel nel suo studio al diciottesimo piano, dal quale si domina lo skyline di Boston al di là del fiume Charles – sia in America che in Europa sono state introdotte leggi ambientali che obbligavano a tagliare le emissioni di solfati. Di conseguenza, l’irradiazione solare è cresciuta», insieme alla temperatura media del pianeta. Scusi, ma questo vuol dire che, oltre al global warming, esiste anche il cosiddetto global dimming, ovvero una lieve riduzione dei raggi solari causata da particelle nell’atmosfera? «Sì», risponde seccamente. I solfati sono diminuiti, ma ci sono altre molecole prodotte dall’uomo: questo vuol dire che il riscaldamento globale potrebbe essere peggiore di quel che osserviamo? Emanuel annuisce.

«Non esiste una soluzione magica al problema del riscaldamento. Per sostituire i combustibili fossili occorre fare tante cose diverse: ricorrere al solare e all’eolico, ma anche all’energia nucleare. Poi bisogna catturare l’anidride carbonica e stoccarla sottoterra: la tecnologia per farlo ce l’abbiamo già, ma è ancora troppo onerosa».



(Nel video, il documentario BBC che spiega come si è formato l'uragano Sandy)

Già, ma non crede che per architettare un rapido addio alle risorse fossili ci sia bisogno prima di tutto di un cambio di atteggiamento da parte degli Stati Uniti? «Ah, non c’è dubbio: il Congresso americano è stato finora il maggior ostacolo ai negoziati delle Nazioni Unite su questo tema. Tuttavia, a livello locale le cose vanno diversamente: Boston e New York sono molto serie, nel progettare contromisure. La California ha adottato leggi stringenti e incoraggia l’efficienza energetica. Il disastro è a livello federale. Anche se, curiosamente, il cambiamento climatico è nelle priorità strategiche del Pentagono, che lo considera una sorgente certa di futuri rischi», come la possibilità di guerre innescate dalla competizione per le risorse idriche.

Neppure Barack Obama, che pure era partito con tutte le buone intenzioni, è riuscito a cambiare l’atteggiamento ambientale del Congresso. Scusi la crudezza della domanda, ma non è che ci sarà bisogno di una Pearl Harbour ambientale, per ingaggiare l’opinione pubblica e far cambiare il corso della politica? «Ho paura che la risposta sia affermativa», ammette Emanuel. «Come il bombardamento di Pearl Harbour condusse gli Stati Uniti in guerra, è possibile che succeda anche con la guerra al clima: prendere la decisione giusta per il motivo sbagliato». Ci pensa un po’, poi aggiunge: «Non sappiamo se l’uragano Sandy sia stato direttamente causato dal riscaldamento planetario, ma le assicuro che per gli abitanti delle coste del New Jersey o della North Carolina, Sandy è stata una vera e propria Pearl Harbour».

Tuttavia qui non si parla di presente, ma di futuro remoto. «I modelli climatici predicono un aumento nell’intensità degli uragani, ma a nel lungo periodo. Se anche l’aumento delle temperature progredisse velocemente, ci vorranno decenni prima di vederne gli effetti». E proprio qui, secondo Kerry Emanuel, sta il problema: «Prendere decisioni oggi nell’interesse di un futuro lontano, non è nelle corde della politica».