Schiavista per Tarantino. Capitalista per Luhrmann. E ora squalo della finanza per Scorsese. DiCaprio presenta la “trilogia della ricchezza”. E racconta chi è davvero

Un anno fa Leonardo DiCaprio era Calvin Candie, il sadico latifondista di Quentin Tarantino che in “Django” si godeva i suoi dopocena con un buon sigaro e incitando i suoi mandingos a picchiarsi a sangue davanti ai suoi occhi. Pochi mesi dopo è diventato “Il Grande Gatsby”, il misterioso e soave personaggio inventato dalla penna di Francis Scott Fitzgerald che sin dalla pubblicazione, nel 1925, è entrato nella mitologia letteraria come un simbolo del lato oscuro dell’American Dream. E non si è fermato, Leo, perché dal giorno di Natale nelle sale Usa e dal 23 di questo mese in quelle italiane torna nei panni di un nuovo personaggio del tutto amorale che ha diviso i cinespettatori, gli ha fatto conquistare il suo secondo Golden Globe, e ha generato una certezza: che il ciclo del ragazzino dal volto angelico e innocente che stringeva la sua Rose sulla prua del “Titanic” urlando ai venti «Sono il re del mondo!» si è concluso. E che DiCaprio adesso è finalmente diventato un uomo: i suoi lineamenti perfetti non sono più una distrazione ma un veicolo per raccontare l’America e il suo scontento, i suoi eccessi, le sue divisioni e il suo disagio spirituale.

In “The Wolf of Wall street”, suo quinto film diretto da Martin Scorsese, DiCaprio è Jordan Belfort, un finanziere che a 26 anni aveva già accumulato 50 milioni di dollari sottraendoli ai suoi clienti, ricchi o poveri non importa. E che li ha bruciati senza rimorsi e senza freni in droghe, yacht e feste. Un’esperienza che ha generato due ore e 59 minuti di cinema elettrizzanti, rivoltanti ed estenuanti, una commedia nera sull’immoralità e sulle debolezze dell’animo umano al cui centro c’è un DiCaprio istrionico che sniffa coca dal sedere di una prostituta, motiva i suoi dipendenti lanciando nani contro un muro e si schianta alla guida del suo elicottero perché troppo fatto. E che dopo tre nomination agli Oscar fallite (con “Buon Compleanno Mr. Grape”, “The Aviator” e “Diamanti di sangue”) e quasi vent’anni di adorazione e venerazione da parte dei suoi fan, potrebbe finalmente ricevere l’ambita consacrazione.

Come il protagonista del suo ultimo film, anche DiCaprio avrebbe potuto facilmente trasformarsi in uno di quei tanti divi per i quali soldi, fama e adulazione diventano una combinazione irresistibilmente tossica. Ma invece di inseguire l’ultimo blockbuster, l’attore ha fatto di tutto per spogliarsi dell’immagine del ragazzino impossibilmente fascinoso e generoso di “Titanic”. E ha scelto invece di lavorare con registi impegnativi come appunto Scorsese piuttosto che Baz Luhrmann, Steven Spielberg, Clint Eastwood e Christopher Nolan. E anche se non ha vissuto il passaggio rituale del matrimonio e dei figli e ha anzi scelto la vita dello scapolo d’oro al braccio di bellezze come Eva Herzigova, Bar Rafaeli, Gisele Bündchen e Blake Lively, DiCaprio si associa solo a film che hanno un significato e che, ambientati adesso o 150 anni fa, esprimono comunque il senso di angoscia del maschio contemporaneo. Ha anche scelto di essere un bravo cittadino del nostro fragile pianeta, mettendo tempo, soldi e fama al servizio di varie cause che vanno dalla protezione della foresta amazzonica alla preservazione della tigre siberiana. Come lui stesso racconta all’“Espresso” in questa intervista.

DiCaprio, nei suoi ultimi film lei è andato a cercarsi tre personaggi coi quali ha esplorato gli anfratti più disdicevoli dell’animo umano.
«Mi piace chiamarla la mia “trilogia della ricchezza”. Ovviamente tendo a gravitare attorno a quello stesso soggetto, perché che si parli della distruzione dell’ambiente o della fame nel mondo finisci sempre per ricadere sulla questione dell’accumulazione della ricchezza e sul bisogno dell’animo umano di dover avere successo a ogni costo e di possedere sempre di più. Jordan Belfort è come un Caligola dei nostri giorni, uno che ha considerazione solo per se stesso. Ma l’avidità è parte della vita, nessuna specie farebbe a meno di far fuori un’altra specie per sopravvivere e del resto l’idea di consumare e di accumulare più che puoi pervade non solo il nostro Paese, ma il mondo intero. Come homo sapiens, penso non saremo mai capaci di non approfittare delle debolezze degli altri ed è questo che mi ha incuriosito quando ho preso in mano il libro di Belfort. Quel romanzo per me è diventato quasi un’ossessione che mi sono portato dietro per sette anni. Ho sentito una voce interna che mi diceva che questo era un film che dovevo fare».

Una voce così forte che se lo è prodotto da solo. Perché? Perché tanti attori come lei, che potrebbero fare qualunque cosa, decidono di dedicare a un film sette anni invece che due mesi della propria vita?
«Fondamentalmente sono diventato produttore per ragioni molto egoistiche, per trovare storie migliori per me stesso. Invece di aspettare che le sceneggiature arrivassero sul portone di casa mia, mi sono messo a cercare libri e personaggi da poter cucire su misura per me. Quella era la spinta iniziale, ma poi la casa di produzione è cresciuta e abbiamo iniziato ad acquisire materiale che non era specificamente per me come attore, anche perché la verità è che Hollywood film come questi, che rompono le convenzioni e allargano i confini del cinema, non li fa più».

Prima era Martin Scorsese a scegliere lei. Adesso è il contrario...
«La sceneggiatura era mirata sul suo stile come regista e sul mio come attore. C’è una narrazione in prima persona come in “Goodfellas” e il protagonista che a volte parla alla cinepresa. Non avrei potuto concepire un altro regista: ma è stato Marty a dire che dovevamo essere quanto più autentici possibile e che non dovevamo dare ai personaggi né una motivazione né metterci a esporre le conseguenze delle loro azioni. Noi dovevamo solo raccontarli».

Ma così vi siete esposti alle critiche di chi ha visto in “Wolf” una glorificazione di quel mondo rapace e immorale.
«Lo capisco, e capisco che ci sarà sempre chi prende un film come questo per il verso sbagliato. Ci sarà sempre gente che vedrà “Scarface” e deciderà che vuole diventare un gangster e ce ne saranno altri che vedranno “Wall Street” e decideranno che il loro idolo è Gordon Gekko, come successo a Belfort. Ma per me sono i film come questi i più interessanti, perché ti aiutano a capire meglio la cultura nella quale viviamo».

Da quel punto di vista, non pare abbiamo poi imparato così tanto...
«Temo che continueremo a fare gli stessi errori. È per questo che ho trovato anche “Il Grande Gatsby” così significativo: perché vediamo che lo stesso ciclo continua a ripetersi senza sosta».

La storia di Belfort descrive quello che può succedere a un ragazzo di poco più di vent’anni che si ritrova improvvisamente circondato da soldi, fama, adulazione e tutto ciò che desidera. Che cosa ha in comune con il percorso di DiCaprio?
«Da giovane ho avuto un periodo in cui pensavo di aver capito tutto. Poi sono arrivato a comprendere che il mio era solo un mondo immaginario, dove alla fine della fiera non cambiamo la società e non risolviamo la questione della fame nel mondo. Detto questo, sono grato di poter fare questo lavoro e di avere la vita che ho. Provo solo gratitudine».

E non tende a esagerare? Non le capita di volere ancora più soldi, ancora più successo?
«Compro opere d’arte, un altro mercato totalmente folle e soggetto a ogni tipo di manipolazione. Ma amo troppo l’arte e, devo dire, sinora mi è andata bene. E sì, è ovvio che voglio avere ancora successo e fare più soldi. Accade a tutti. Ma non puoi farne un’ossessione, altrimenti la tua vita diventa alquanto miserevole».

Niente fuoriserie, jet, yacht?
«No, se ho una debolezza sono le giacche. Per me sono come le scarpe per le donne, ne vedo una e se ne ho già un’altra che è esattamente uguale ma ha il collo un po’ più morbido o più stretto devo avere pure quella».

E poi le tiene perbene? La sua casa è ordinata?
«Sì, ma non per merito mio. Io sono molto disordinato».

E lavora un sacco: tre film in un anno. E quando non è sul set è a una conferenza dell’Unesco o a salvare le tigri siberiane. Si distrae mai?
«Detesto distrarmi! Ma no, non c’è ragione di preoccuparsi per me, sto molto bene grazie. Dopo la mia trilogia mi sono preso quasi un anno senza lavorare. Sì, ho raccolto fondi per l’ambiente ma ho anche viaggiato e passato nottate con gli amici a parlare di niente. Mi piace andare al cinema, mi piace sentire musica, mi piace fare immersioni subacquee. Quando sei là sotto è un’esperienza straordinaria, sei disconnesso dalla terra. E ti trovi in un mondo talmente bello che è come se fosse stato disegnato coi computer».

Ed è per questo che sei anni fa lei si è trovato chiuso in una gabbia a pochi centimetri da un grande squalo bianco... Alla soglia dei quarant’anni, continua a cercare questo tipo di esperienze?
«Mi è successo in Sudafrica, è stato terrificante, e in effetti mi è capitato anche altre volte di trovarmi in situazioni molto critiche. Ma non faccio più sport estremi. Per tenermi in forma seguo un regime molto normale, mi esercito moderatamente. E cerco di stare lontano da situazioni in cui potrei morire».

È anche un’età in cui molti si guardano indietro e iniziano ad avere rimpianti.
«Non io, anche perché se penso a quando avevo 16 anni non sono poi così diverso dal tipo di attore che ambivo a diventare. Volevo essere il più aggressivo e il più ambizioso attore possibile, e anche se nel frattempo sono cresciuto e ho capito che ci sono altre cose altrettanto interessanti, non ho mai smesso di desiderarlo. E ho sempre rispettato i miei fan, anche se so che il loro gusto cambia ogni secondo e anche loro alla fine vogliono vedere attori che corrono dei rischi, che si evolvono. Anche loro vogliono essere sorpresi».

Si innervosisce facilmente? Che cosa le mette ansia?
«Sono cresciuto sentendomi un oustider e  fondamentalmente mi sento ancora così. E forse per questo, sì, divento nervoso in ogni tipo di situazione: certamente ogni volta che devo fare un nuovo film».

E gli Oscar e i Golden Globe e le altre premiazioni? Le danno agitazione?
«Penso che chiunque va in giro a raccontare che non gli importa di venire riconosciuto racconta balle. Ma la verità è che non hai davvero controllo, che il lavoro deve parlare per te e non c’è niente che puoi fare per convincere la gente in una direzione o nell’altra. E no, non ho rimpianti. Potrei averne se non avessi tratto il meglio dalla fortuna che ho avuto, ma so di avere sempre dato il mio meglio».