Pagano poche tasse e godono di molte detrazioni. Ecco perché i magnati americani, da Gates a Zuckerberg, fanno beneficenza

Che cosa hanno in comune Mark Zuckerberg, inventore di Facebook, Ted Turner, fondatore della Cnn, e George Lucas, regista di "Star Wars"? Sono tutti e tre miliardari e tutti e tre hanno firmato il "Giving Pledge", impegnandosi formalmente a devolvere almeno la metà del loro patrimonio per cause filantropiche. Finora hanno promesso la stessa cosa 92 miliardari americani, tra i quali gli ideatori dell'iniziativa, i due uomini più ricchi degli Stati Uniti: Bill Gates e Warren Buffett. Se tutti manterranno quanto promesso, quasi certamente saranno devoluti oltre 200 miliardi di dollari. In totale i privati cittadini americani versano in beneficenza 300 miliardi di dollari l'anno, circa il 2 per cento del Pil. Il che fa di loro i più grandi benefattori del pianeta: devolvono più del doppio dei britannici, e rispettivamente otto e undici volte più di tedeschi e francesi. Secondo la Charities Aid Foundation, nel 2012 quasi la metà degli americani ha destinato soldi a cause umanitarie.

300 miliardi di dollari l'anno sono una cifra equiparabile al Pil della Grecia e circa un terzo di quella destinata all'istruzione dai 27 paesi dell'Ue. Quei soldi vanno a finanziare di tutto, da chiese e sinagoghe a grandi università, gallerie d'arte e sale da concerto, alcuni degli ospedali più moderni al mondo, banche alimentari e think tank, istituti di ricerca contro il cancro e le malattie infettive. Ma possono anche finire (e di fatto finiscono) col sovvenzionare ideologie radicali di ogni risma. Malgrado ciò, la filantropia è stata determinante non soltanto per importanti innovazioni scientifiche ed economiche (per esempio gli incentivi per la rivoluzione verde che ha incrementato la produzione agricola nei Paesi in via di sviluppo), ma anche per l'innovazione sociale, come la formazione di fasce svantaggiate e la promozione dei diritti civili nel sud degli Usa per buona parte del XX secolo.

La filantropia degli americani assolve a molte necessità trascurate dal governo. Perché mai, allora, è incessantemente sotto la lente di ingrandimento di studiosi e giornalisti? E perché il presidente Obama sta adducendo argomentazioni a favore di un limite da porre alle detrazioni fiscali per le donazioni? L'obiezione mossa più di frequente alla filantropia è che non è trasparente ed è il frutto di un sistema sociale non equilibrato, per non dire fallito. Gli enti di beneficenza, piccoli o grandi che siano, forniscono un servizio pubblico ed effettuano scelte politiche che hanno notevoli implicazioni per la società, pur essendo soggetti a controlli irrilevanti e non essendo tenuti a rispondere a nessuno del proprio operato. Tutto ciò lascia ampio margine all'eccentricità, all'inefficienza e agli illeciti.

Per di più, benché sembri ragionevole il concetto secondo cui la gente è libera di spendere i propri soldi per le cause sociali che preferisce, c'è da chiedersi per quale motivo i normali contribuenti dovrebbero sovvenzionare quelle attività permettendo che siano esenti da tassazione: nel caso degli Stati Uniti ciò è possibile sia per le donazioni vere e proprie sia per l'operatività stessa degli enti di beneficenza. Si calcola che la sola detrazione fiscale dei singoli contribuenti per donazioni agli enti di beneficenza costi al Tesoro 50 miliardi di dollari l'anno. Ha senso per i cittadini sovvenzionare con l'esenzione fiscale sia le cliniche che praticano gli aborti sia i gruppi che si battono contro l'aborto? Ha senso che tali sussidi finanzino chiese, moschee, sinagoghe, e al tempo stesso gruppi atei?

L'obiezione fondamentale mossa contro la filantropia è che essa è il frutto di un sistema che tutela i grandi patrimoni e acuisce le disparità di reddito: tassando meno i più facoltosi e investendo meno nei servizi sociali, il sistema crea sia lo strumento della beneficienza sia il suo bisogno. Di conseguenza, se gli Stati Uniti hanno la distribuzione del reddito meno equa tra i paesi avanzati (l'1 per cento dei contribuenti americani più ricchi guadagna il 20 per cento del reddito complessivo e paga un'esigua parte di tasse), la spesa sociale del governo arriva al 20 per cento del Pil, contro una spesa media da parte delle nazioni europee del 27 per cento: un divario immenso, che la filantropia non colma.

La conseguenza è che se da un lato gli Usa hanno università, gallerie d'arte, centri di ricerca d'eccellenza, dall'altro hanno 45 milioni di poveri, prospettive in campo sanitario mediamente cupe, e risultati nell'ambito dell'istruzione inferiori alla media. La filantropia riveste un importante ruolo sociale. Ma i cittadini non dovrebbero essere obbligati a sostenere le istituzioni benefiche in modo così ingente, lasciandole al contempo libere di agire come credono.