Cosa dobbiamo aspettarci dal cinema prossimo venturo? Innanzitutto l'evoluzione tecnologica. Vedremo i film sui telefonini, e in quest'epoca di crisi andrà forte la commedia. Parola di Ben Affleck , la star in corsa agli Oscar
Era bello, quella sera del 1997, Ben Affleck. E intelligente e spiritoso. E, con in mano quell'Oscar condiviso con l'amico Matt Damon per la sceneggiatura di "Will Hunting: genio ribelle" e un sorriso grande, era l'immagine di uno che, a 25 anni, era già in cima alla montagna. Poi iniziò la discesa. Dopo anni di cinema indipendente, decise di tuffarsi in produzioni con ambizioni puramente commerciali come "Armageddon" e "Pearl Harbor". Quindi c'è stata la relazione con Jennifer Lopez: due anni inseguito dai paparazzi. La grande promessa di Hollywood era diventato una figura caricaturale. Nel 2003 gli hanno costruito sopra quella che avrebbe dovuto essere la sua serie eroica, "Daredevil", e che cosa è successo? Un altro flop.
È stato lì, toccando il fondo, che Affleck in un'impennata di orgoglio si è ripromesso che avrebbe intrapreso il percorso della regia e che avrebbe lasciato il segno. E lo ha fatto. Con i suoi primi due film, "Gone Baby Gone", poi "The Town" e fino ad "Argo" la storia vera di un'operazione clandestina della Cia per liberare ostaggi durante l'occupazione dell'ambasciata americana a Teheran nel 1979. Adesso, con cinque nomination ai Golden Globes incluse quelle per il miglior film e per la miglior regia, Affleck è uno dei più forti contendenti in lizza per gli Oscar. Ed è un membro onorario di quel club di attori diventati registi di film allo stesso tempo popolari e impegnati cui appartengono figure come Clint Eastwood, Robert Redford e George Clooney,
Insomma, a 40 anni Affleck ha alle spalle un'esperienza nel mondo dell'entertainment varia quanto intensa. L'agonia e l'estasi. Ed è con lui che abbiamo parlato di che cosa aspettarci dal mondo del cinema nel 2013, dall'evoluzione tecnologica all'impatto dei mercati emergenti a che tipo di storie vedremo nelle nostre sale o, chissà, sui nostri telefonini.
Iniziamo dall'evoluzione tecnologica. «Il cambiamento più immediato sarà nel modo in cui vedremo i film. Ci sarà uno spostamento sempre più marcato dai canali tradizionali (tra televsione e sale) alla tv on-demand, in cui pagheremo per vedere uno specifico show. Scomparirà via via la pellicola, invece che dai nastri di cellulosa esposti alla luce le immagini saranno generate da sensori digitali, e questo cambierà la loro consistenza. I colori, le luci, le voci del digitale sono diversi, e non ci sono i momenti del buio presenti sempre in pellicola, tra un'inquadratura e un'altra. Insomma, un genere artistico che per cento anni è rimasto fondamentalmente immutato sta cambiando grazie alle tecnologie digitali».
Produrre e distribuire cinema sarà più facile ed economico?«Sì. Non ci vogliono più milioni di dollari e amicizie giuste, basta una videocamera da pochi soldi o un iPhone e poi un post su YouTube ed è fatta. Solo dieci anni fa tutto questo sarebbe stato impensabile».
Chiunque potrà produrre il suo film, come avviene già nel settore dei libri?«No. Siamo lontani dalla situazione del romanzo, dove ormai il solo limite a farsi conoscere è il talento. Il cinema, intanto, è un medium che richiede la collaborazione e l'intervento di varie persone, ognuna con la sua specialità. E poi, è vero che la tecnologia ha abbassato le barriere all'ingresso, nel mondo della produzione, ma ha alzato quelle delle nostre aspettative e dei nostri standard».
Cosa vuol dire? «Se andiamo a vedere quello che offre il mercato, ci accorgiamo che siamo inondati da "corti" e da produzioni con tanta gente che parla e discute, ma tutta questa diffusione di nuovi film di alta qualità non si è materializzata. Forse le cose cambieranno, ma per adesso e così».
Gli studios nel frattempo sembrano avere perso interesse nei film che fanno pensare e si sono trasformati invece in macchine per produrre costosissime nuove serie potenzialmente molto lucrative.«Film come "Tutti gli uomini del presidente" o "Kramer contro Kramer", uscito durante la crisi degli ostaggi in Iran, non solo facevano riflettere ma sono anche stati grandi successi. Ora è più difficile. Il 10 per cento dei film prodotti genera il 90 per cento degli incassi e gli studios, ormai tutti sotto il controllo di grandi conglomerate, preferiscono investire 200 milioni in un film che ha il potenziale di fare un miliardo che 50 in un film che magari non riesce nemmeno a recuperare i costi di produzione. Tutto questo è logico, in apparenza. Ecco perché fare un certo tipo di film è sempre più difficile. Però, il bello del nostro business è che è sempre estremamente imprevedibile».
E infatti esce un film di qualità come il suo "Argo" e tutte le certezze saltano.«Più che le certezze luoghi comuni. Sono usciti o stanno uscendo molti film interessanti, da "Les Misérables" a "Django", passando per "La vita di Pi", "L'orlo argenteo delle nuvole" di David Russell, "Operazione zero dark thirty" di Kathryn Bigelow. Film interessanti e fatti dagli studios, che non hanno rinunciato a produrre storie che possono incidere perfino sul nostro inconscio e allo stesso tempo far cassa. Penso che nel prossimo futuro, nel 2013, ci sarà posto sia per film che fanno pensare sia per quelli con cui ci si diverte. Però c'è un'ironia della storia a cui pochi ci pensano».
Quale?«Che a spingere Hollywood a puntare in basso e fare sempre più prodotti basati su effetti speciali e personaggi improbabili sono soprattutto i mercati stranieri».
Perché?«Qui negli States pensiamo sempre che il pubblico e il cinema stranieri siano più sofisticati di noi americani. Ma molte industrie nazionali, molti Paesi emergenti, riescono ormai a produrre con successo i loro drammi e le loro commedie. Quello che non possono permettersi sono film che costano 80 milioni di dollari solo di effetti speciali e conversioni in 3D. Questo è il tipo di cinema che chiedono a Hollywood. Ed è questa richiesta a determinare le scelte degli studios».
E lei, dove si colloca?«Il mio "Argo" è uno di quei film che stanno in mezzo. È costato 45 milioni di dollari, non una somma enorme ma neanche poco. E avevo paura che non li avremmo recuperati, perché anch'io sono vittima di questo luogo comune secondo cui nessuno vuole drammi e che la politica va lasciata fuori dal cinema e figuriamoci il Medio Oriente dove tutto è ambiguo e complicato. Ero molto preoccupato perché "Argo" è un film che ha qualcosa di "Tutti gli uomini del presidente" ma vuole pure essere una satira di Hollywood alla Cassavetes e c'è una parte un po' stile Costa-Gavras. Alla fine è andata bene. E ne sono felice per una ragione egoistica: adesso potrò fare altri film».
Allarghiamo il discorso e torniamo sul futuro del cinema, partendo dal suo successo. Come film-maker sente responsabilità per l'avvenire dell'industria? «Molti colleghi pensano solo alle loro carriere e a ciò che è bene per loro. Il cinema può essere pura evasione e lo capisco. In tempi come questi la gente cerca di non pensare ai propri guai. Anche durante la seconda guerra mondiale i film prodotti erano perlopiù leggeri».
E questo il trend che ci attende nel 2013 e forse negli anni dopo, se non finisce la crisi?«In parte sì. Quanto a me, cerco temi importanti, situazioni legate a eventi reali o che impongono scelte morali. Mi piace esprimermi cercando una prospettiva umanistica, storie che ci rammentano che siamo tutti legati gli uni agli altri. E il fatto che io trovi uno spazio, significa che a Hollywood questo tipo di film si può e si potrà fare. E in questo non sono solo».
Chi sono gli altri?«Per primo George Clooney che ha prodotto "Argo" e continua a fare film belli e impegnati e poi: Martin Brest, Gus Van Sant, John Madden, Michael Bay e Terrence Malick con cui ho lavorato in "To the wonder". Un altro che ammiro è Clint Eastwood. È un'icona americana. E come regista ha mostrato la virtù di essere un narratore implacabile, di raccontare una storia punto per punto e senza fronzoli. Il vero cinema del futuro lo stanno costruendo loro».