Un Paese giovane, con una gran voglia di fare e di guardare al futuro. Il patron della Piaggio spiega perché ha deciso di raddoppiare il suo investimento a Hanoi. Dove, dice, gli italiani sono molto popolari: grazie al '68 e al Pci

Sul capace tavolo del suo luminoso ufficio di Mantova, Roberto Colaninno, 67 anni, imprenditore poliedrico e presidente della Piaggio, ha delle finestre aperte sul mondo intero. Dossier-Paese che spaziano su tutte le longitudini perché dovunque vende motorini. Ma quella che stringe nelle mani, e forse gli è più cara, è una cartella con sopra scritto "Vietnam", nazione di cui si è innamorato subito per alcuni aspetti di euforia da ricostruzione che la apparentano all'Italia del dopoguerra.

Ecco perché non si poteva che cercare lui per parlare di Vietnam. Colaninno c'era sbarcato cinque anni fa scoprendo la sua personale America con un tragitto opposto a quello di Colombo. Aveva aperto lo stabilimento di Vinh Puc che entro il 2013 raddoppierà: da 26 mila a 50 mila metri quadrati, da 500 a mille dipendenti, da 100 mila a 300 mila scooter prodotti. In questa intervista con "L'Espresso" parla del Far East, solo ieri terra vergine per il capitalismo, ora nuova frontiera su cui ha piantato una bandiera. Grazie ad alcune circostanze favorevoli recenti. E anche passate che affondano le radici nel Sessantotto.

Roberto Colaninno, davvero per le sue fortune vietnamite deve dire grazie al '68?
"Se il Vietnam ha un rapporto di simpatia particolare verso l'Italia non c'è dubbio che lo si deve al comportamento di un partito politico come il Pci e all'atteggiamento della popolazione giovane di allora verso la guerra che era in corso. Furono portati molti aiuti alla popolazione che non ha dimenticato".

Lei ci arrivò nel 2007. Che Paese trovò?
"Ci sono andato, anzitutto, per una ragione commerciale. Avevamo dei rapporti in cui si capiva chiaramente che i prodotti Piaggio, specialmente la Vespa, avevano un'immagine positiva. Danno gioia, status, sensazione di mobilità libera. Avevo l'idea che hanno tutti, un Paese uscito da un conflitto tremendo, e un Paese importante in un'area depressa".

Poi sbarca all'aeroporto e...?
"E mi trovo davanti una nazione dove tutti sorridono. E, almeno quella è l'impressione, sono tutti giovani. Del resto le cifre lo confermano: 86 milioni di persone di cui quasi 50 milioni con meno di trent'anni. E oggi sono già 90 milioni, nel 2021 saranno 99 milioni con l'età media che si abbassa di continuo. L'esatto contrario che da noi. Negli uffici, negli alberghi, nelle fabbriche: tutti giovani".

Anche nella pubblica amministrazione?
"No. Lì vedi il Paese gestito con la forte centralità tipica dei governi social-comunisti. Ma nessuno tuttavia, ed è il secondo elemento che mi ha colpito, che parli o ricordi la guerra. E nemmeno in giro se ne vedono i segni. Solo a Ho Chi Minh, l'ex Saigon, c'è il famoso carro armato russo davanti all'ex palazzo del governatore. Ma è un cimelio, come se si andasse in un museo".

Vuol dire che il Vietnam ha uno sguardo rivolto al futuro?
"Sì. Facce sorridenti, positive, sembrano quasi ingenue anche se ingenui non sono. E, andando più in profondità, mi sono accorto che può essere un Paese leader nell'area. Li muove la stessa molla che è scattata in Cina quando Deng Xiaoping disse che il pensiero di Mao non era contro il guadagno e quindi è stato legalizzato il profitto per popolazioni che, sul tema, la sanno lunga".

I risultati si sono visti. Ed ecco le Tigri asiatiche.
"Con cifre che sono impressionanti. Il loro reddito pro capite era di 2.100 dollari nel 2005 sarà di 3.300 quest'anno. E questo significa che cambia il loro desiderio di consumi. Avevano crescite a due cifre prima della crisi del 2008 e hanno solo rallentato un po', toccando il livello più basso del 5 per cento nel 2009 e ora sono già sopra il 6. Sempre prima della crisi l'inflazione era in costante discesa, è schizzata al 23,1 del 2008, ora è al 13,5 e le aspettative del 2012 sono del 6,7. Ma attenzione: è un Paese che fa inflazione anche a causa della forte quantità di investimenti esteri (soprattutto giapponesi e taiwanesi) e per la forte domanda di infrastrutture".

Torniamo alla pubblica amministrazione. Lei con i vietnamiti fa buoni affari.

"Per ottenere i permessi di costruire all'interno di un'area industriale ci abbiamo messo 15 giorni-un mese".

In Italia quanto ci sarebbe voluto?

"Anni. E forse non sarebbero arrivati mai. L'amministrazione è fortemente centralizzata. C'è un solo sindacato, senza tante sigle. Tutto è organizzato e deciso da un piano quinquennale che stabilisce dove investire e il tasso di sviluppo. Un imprenditore ha un referente e regole precise da seguire. Poi non nascondo molti altri problemi da superare. Ci sono forti dazi sull'import-export di materie prime e semilavorati e là sotto c'è una burocrazia complessa che esercita un potere notevole. Comunque, in generale è tutto più semplice, c'è una tv unica, i quotidiani sono pochi".

Lo dice come un valore?
"Assolutamente no. Lo dico come un dato di fatto. Lo deve dire un vietnamita se questo è un valore. Io non vivo la vita di tutti i giorni. Non conosco la qualità degli ospedali, delle scuole. So che stanno investendo molto in infrastrutture come strade, aeroporti, treni. Fuori dalle grandi città ci sono foreste lussureggianti e in alcune aree ci sono sacche di povertà impressionanti. Come impresa, però, ci siamo trovati bene perché veniamo da una situazione complessa come quella italiana ed europea. Anche se ci misuriamo con un Paese che sta vicino all'Equatore ed ha certe caratteristiche climatiche e dove la carenza di energia è spaventosa e si resta senza elettricità due giorni a settimana".

È anche un Paese dove i lavoratori godono di pochi diritti.
"Se si confronta il nostro sistema sociale col loro è come paragonare il giorno con la notte. Noi diamo per acquisito tutto quello che abbiamo e ci meraviglieremmo se dovessimo tornare indietro anche solo di un passo. Loro iniziano la salita della scala e scambiandoci le esperienze potremo crescere insieme".

Non ne dobbiamo avere paura.
"Paura no. Siamo sette miliardi sulla terra, tutti con gli stessi diritti. Il fatto che quattro miliardi di asiatici abbiano deciso di crescere è positivo. Ci saranno all'inizio delle difficoltà a gestire quella che è una vera rivoluzione mondiale. Ma nel medio-lungo termine sarà un bene per tutti".

Ci sarà il rischio di consumarla la terra.
"Dovremo abituarci a consumare di meno noi. Non possiamo affrontare questo problema in modo egoistico".