Consigli di amministrazione. Reclutamento. Rettori. La riforma Gelmini è sbagliata. Ma i mali degli atenei vengono da più lontano. Parola di accademico


L'università in Italia è allo sbando: i disastri sono pluridecennali e non serve fare la conta degli errori che i governi, di sinistra e di destra, hanno compiuto con una perseveranza che lascia sgomenti. Il primo imperdonabile errore fu quello di ritenere che l'università fosse un parcheggio, una sine cura, per giovani che non avevano accesso a un lavoro quale che fosse: non sapendo dove metterli, mandiamoli all'università, si disse, e così accadde. Accessi liberi a tutti in modo da giungere al tracollo delle già precarie condizioni: aule stipate fino all'inverosimile, servizi (biblioteche) e sostegni ai meritevoli inesistenti o quasi (mense, case dello studente, borse di studio, ecc.), rapporti tra docenti e studenti inverosimilmente squilibrati. Contestualmente una serie micidiale di ope legis arruolò, sotto la spinta dei sindacati, nell'università docenti del tutto impari. Nel corso degli anni seguenti al 1968 si spezzò quel patto di solidarietà indispensabile tra chi insegna e chi vuole imparare. La liberalizzazione degli accessi all'università, realizzazione di un dettato costituzionale, si risolse in un'impostura. La burocratizzazione assunse proporzioni elefantiache. L'accademia non seppe assumersi le sue responsabilità, perché continuò a flirtare col potere politico. Chi traffica con il potente di turno può trarne vantaggi personali, ma non è un interlocutore con le mani libere, capace di difendere l'interesse pubblico di un'istruzione superiore competitiva.

In nessun Parlamento d'Europa ci sono stati tanti docenti universitari quanti in quelli della prima Repubblica: credo sia utile riflettere sul fatto che Luigi Einaudi, Giovanni Leone e Francesco Cossiga, presidenti della Repubblica, erano professori universitari, che una lista interminabile di professori sono stati presidenti del Consiglio: da Amintore Fanfani ad Aldo Moro, da Francesco De Martino a Giuliano Amato, fino a Romano Prodi. Moltissimi i ministri e i sottosegretari. Il professore, spesso e volentieri, cooptato dal potere politico, si è dimenticato che la casa da cui proveniva aveva fondamenta fradice, tetti sfondati e vetri in frantumi. Questa casa troppo spesso è stata affidata a ministri del tutto impari, di seconda fila: qualcosa di simile è accaduto per i Beni culturali.

Fior di accademici sono entrati in Parlamento al centro e a sinistra, a destra erano assai pochi. Tuttavia questa presenza massiccia è una specialità tutta italiana. È inimmaginabile pensare che Fernand Braudel si candidasse al Parlamento o avesse accettato di fare il ministro di un governo De Gaulle di cui era amico, o Claude Lévi-Strauss potesse fare il sottosegretario di un governo di gauche; ancor più sarebbe fantascienza l'idea che Isaiah Berlin o Denis Mack Smith entrassero a far parte del Parlamento inglese. Per la semplice ragione che costoro sono stati l'espressione di un partito del sapere e membri di un'Accademia che ha preservato orgogliosamente la propria autonomia. Si è così configurato un potere di controllo severo, non istituzionale come lo è quello della magistratura, ma capace di esercitare il proprio magistero sotto gli occhi di una consapevole opinione pubblica.

Eppure, malgrado questi gravi guasti l'università pubblica è rimasta l'unico produttore di sapere e di formazione, in molti casi di livello non inferiore a quel che si vede in Europa. Alle luce di tali considerazioni sarebbe da ipocriti buttar la croce sulle esili spalle del ministro Gelmini i cui meriti e le cui competenze in quanto a scuola e università sono un'invenzione dell'Artefice magico: la di lei buona volontà è apprezzabile, visto che è espressione di un esecutivo in cui i professori universitari sono ridotti al lumicino per la prima volta nella nostra storia. Potrebbe essere un bene considerati i precedenti di cui si è detto. Purtroppo così non è. La riforma che si sta discutendo al Senato è un coacervo di buone intenzioni, condite da veri e propri bocconi avvelenati che proverò a indicare in ordine di rilevanza. Tutti sostengono che la scuola e l'università sono il futuro di un Paese moderno, dunque c'è bisogno di finanziare la ricerca che è uno dei compiti istituzionali dell'università accanto a quello di insegnare: atteniamoci a pochi dati. La distribuzione dei fondi di ricerca in Europa, in funzione del merito, è questa: Italia, 1,10 per cento, Olanda 1,82 e Svizzera 2,93: investiamo un quinto di Israele, un quarto della Germania, ci hanno sorpassati Spagna, Slovenia, Irlanda e Repubblica Ceca. Siamo fanalino di coda. L'ossessivo refrain del testo della riforma Gelmini, tra articoli e commi, dice: "senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica". Robe de matt... dicono a Milano! Ma quale riforma si fa senza risorse? Ma sa il ministro quali sono le posizioni che occupa l'Italia nelle classifiche più autorevoli europee per valutare gli investimenti in ricerca? Solo 1,8 per cento del Pil, la metà della media europea. Ma il ministro ha letto i documenti della Conferenza dei rettori? Non sa che molti atenei sono sulla soglia della bancarotta? Mi sembra di capire che questo disegno in fieri usi sempre le stesse carte e le sposti da una casella all'altra.

Veniamo al governo dei futuri atenei: vien da ridere a leggere del Comitato etico che dovrebbe redigere un codice deontologico per la gestione delle risorse in modo trasparente e evitare conflitti d'interessi. La lingua batte dove il dente duole? Ma non basta il codice civile e quello penale? Solo fumo. La norma che governa la durata del mandato del rettore dice che non può superare gli otto anni: è uno scandaloso cedimento agli interessi corporativi di rettori a vita. La separazione delle funzioni del Consiglio di amministrazione e del Senato accademico è, nel momento in cui scrivo, in uno stato gelatinoso: ma è evidente che si cerca di introdurre la figura del manager, il direttore generale: come in un celebre racconto russo egli dovrà surrogare in sé funzioni che sono attualmente del direttore amministrativo e del Senato accademico. Così come inutile inclinazione privatistica è l'inserimento nel cda di membri esterni al mondo universitario: essi dovrebbero portare la linfa della società civile, ambizione patetica che scimmiotta il modello dell'università americana. In una pluridecennale carriera accademica nessun industria o mecenate ho visto finanziare l'università; al più convenzioni per fini specifici, funzionali a interessi produttivi. Vagheggiare il magnate che dona il patrimonio è sciocca demagogia.

Ci saranno nuove norme per il reclutamento di professori ordinari, associati e ricercatori: qui ogni norma può essere neutralizzata dalle lobby accademiche più potenti. Il disastro dell'università italiana è l'esito di una cooperazione attiva costituita dal colpevole disinteresse dei politici e da una piccola parte della corporazione accademica, potente e trasversale, che prevarica i più e imbarbarisce il Paese.